Le star della conservazione

Innanzi tutto non mi convincerò mai che motore della creatività possano essere stipendi bassi e incertezza economica. Lo avevano capito centinaia di anni fa i mecenati che finanziavano artisti, scrittori e intellettuali, anche con regolari stipendi. Innovazione e talento non si possono coltivare, nella tv pubblica o altrove, con politiche di compensi al ribasso. Ma se questo discorso vale per le grandi star del video, va detto con chiarezza che deve valere, a maggior ragione, per la moltitudine di lavoratori culturali e creativi che oggi sono alla base della piramide aziendale della Rai.

A fronte di un numero ristretto di personalità molto ben pagate, nel servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale come in tutte le imprese culturali e creative, ci sono migliaia di lavoratori con stipendi, contratti e condizioni di lavoro spesso inaccettabili. Sono i proletari della creatività e della cultura che negli ultimi anni, più di altre categorie, hanno subito un drammatico e progressivo impoverimento. Allo stesso tempo, hanno anche visto allontanarsi la possibilità di sfondare il soffitto di cristallo che impedisce loro di sollevarsi da una condizione di subordinazione non solo economica, ma anche creativa e intellettuale. E questo soprattutto a causa di una generalizzata tendenza alla ripetizione (in tv e altrove) di stilemi, linguaggi, tipologie di prodotto la cui produzione è monopolizzata da gruppi dominanti che tendono a escludere la concorrenza esterna per conservare lo status quo. A questo fa riscontro la diffusa pigrizia nella ricerca del nuovo, attività che comporta estrema apertura intellettuale, cultura del rischio, capacità di cogliere e coltivare i talenti, indipendenza dalle posizioni produttive dominanti, disposizione alla sperimentazione, conoscenza delle tendenze ancora non main stream. Condizioni necessarie per favorire l’allargamento del mercato, con l’ingresso di nuovi soggetti, e un reale pluralismo.

Attorno alla Rai gravitano, con contratti stabili o precari, migliaia di lavoratori che per compensi mensili netti oscillanti tra i 700 e i 2000 euro (raggiunti, questi, dopo decenni di carriera) svolgono attività imprescindibili per il servizio pubblico: sono autori di testi, montano servizi, fanno ricerca in archivio, girano il paese per trovare le giuste location, per contattare le persone da intervistare, selezionano le storie da raccontare, fanno le riprese, suggeriscono al conduttore le battute, organizzano lo studio, costruiscono le scenografie, lavorano alla produzione, creano la grafica, curano gli archivi e la digitalizzazione; ma fanno anche gli inviati, parlano alla radio, selezionano la musica e la mandano in onda, sono tecnici del suono o delle luci, e tanto, tantissimo altro. Sono le persone i cui nomi e le cui funzioni leggiamo (o ascoltiamo) distrattamente nei titoli di coda. Per molti di loro il lavoro che svolgono per il servizio pubblico rappresenta un ripiego rispetto ad ambizioni, talenti, conoscenze che con estrema difficoltà verranno in luce in questo contesto e con queste condizioni di partenza.

L’ansia, comprensibilissima, di non abbassare lo share e di continuare a dare al pubblico ciò che ha già dimostrato di gradire (in sostanza, il timore di abbandonare la strada vecchia per la nuova) priva il mercato di creazioni ancora inespresse che potrebbero diventare in breve nuovi e ulteriori successi, per un pubblico frammentato, esigente e sempre più disponibile ad accettare novità in un ambito in cui non può che essere l’allargamento e la maggiore varietà dell’offerta a moltiplicare e modificare la stessa domanda.

Il Cubismo non nacque perché il pubblico sentiva l’esigenza di una pittura che semplificasse le forme, decostruisse la prospettiva e moltiplicasse i punti di vista, ma perché qualcosa che bolliva sotto la superficie riuscì a trovare spazio per emergere e poi, con il tempo, a essere apprezzata dal pubblico. Ma prima che il Cubismo di Picasso e Braque diventasse una tendenza fondamentale nella pittura mondiale, nel pubblico, nessuno ne aveva sentita l’esigenza, nessuno la desiderava, anche perché, come ci spiegava Hannibal Lecter, «il desiderio nasce da quello che osserviamo ogni giorno». E aggiungerei che è piuttosto difficile desiderare ciò di cui non si conosce l’esistenza.

Il superamento dell’epoca della scarsità delle frequenze, grazie all’innovazione tecnologica, ha determinato il problema dell’insufficienza del prodotto necessario oggi a occupare centinaia di ore di trasmissione per un numero crescente di canali e di piattaforme distributive. La risposta è stata in moltissimi casi la moltiplicazione di formule di sicuro successo, l’allungamento della durata di programmi già sperimentati, la colonizzazione degli spazi televisivi da parte di volti e formule rassicuranti contesi tra i diversi broadcaster con offerte di compensi milionari. L’effetto è stata la nascita di un élite – verrebbe quasi voglia di dire una casta – di fornitori “creativi” non sempre disposti ad aprirsi a nuovi soggetti. Fornitori che più che stare sul mercato, lo condizionano. Da parte loro, i broadcaster sono molto prudenti nell’introdurre innovazione – e quindi elementi di rischio e occasioni di fallimento – nel sistema, contribuendo così a rafforzare le posizioni dominanti e a stringere i lacci che li legano all’esistente, talvolta soffocandoli. Ciò accade anche perché ogni nuovo programma o nuovo volto al quale gli spettatori non rispondano con immediato favore, soprattutto nel servizio pubblico, diventa un caso nazionale, il che dimostra quanto poco sia penetrata nella nostra cultura l’idea che se non si accettano il rischio e l’eventualità del fallimento si perde la gara dell’innovazione.

Coltivare i talenti e metterli nelle condizioni di esprimere le loro potenzialità, rischiare sui tempi lunghi e sull’incerta maturazione dei vivai (un certo grado di rischio di impresa, in definitiva) è la condizione necessaria perché si verifichi un vero ricambio, perché siano innestate nuove idee e si moltiplichino le tipologie di offerta, e si estenda di conseguenza il pluralismo dell’offerta alla base dell’attività del servizio pubblico (oltre che della democrazia). La Rai si trova in una posizione di forte vantaggio competitivo, potendo contare sullo straordinario bacino di creatività in larga parte inespressa racchiuso nel suo corpo aziendale. Dunque può e deve partire dalla sua missione di servizio pubblico nel sostenere la creatività, l’innovazione, la sperimentazione, senza l’ossessione dello share. Per questo motivo non riesco ad allinearmi completamente ai cori pro o contro gli stipendi delle star, che mi sembrano dimostrare un qualche strabismo. L’obiettivo, oggettivamente più difficile da identificare, è piuttosto riattivare un mercato che può sopravvivere bene solo nell’abbondanza e nella differenziazione delle proposte, e che invece deperisce nella concentrazione e nella ripetizione.