La partita che si è giocata in questi ultimi anni nella politica italiana ruotava attorno alla ridefinizione dei gruppi dirigenti dentro le due principali coalizioni. Una partita giocata senza esclusione di colpi, spesso nelle forme di una vera e propria campagna di stampa, sebbene con scarsa o nessuna consapevolezza da parte di molti dei commentatori che vi hanno entusiasticamente partecipato. Primo obiettivo di tale campagna era la sostituzione delle leadership esistenti, quelle di Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Ma dietro i facili argomenti della necessità di un ricambio, anche generazionale, si nascondeva l’ostilità delle vecchie oligarchie parassitarie nei confronti di leader politici sentiti come estranei innanzi tutto perché effettivamente rappresentativi del proprio elettorato. Un attacco manifestamente mirato a favorire più giovani, più deboli e dunque più malleabili alternative. L’esito di tale campagna, almeno per ora, si può dire sia stato un completo fallimento. Romano Prodi ha formato il nuovo governo e indicato chiaramente le linee guida della sua azione; Silvio Berlusconi è uscito dalla sconfitta elettorale come l’incontrastato vincitore della lotta per l’egemonia nell’opposizione.
Le stucchevoli polemiche sulle trattative tra i partiti del centrosinistra attorno agli incarichi, sul numero dei sottosegretari o sulle dichiarazioni di qualche ministro di secondo piano – polemiche che di quella campagna sono solo gli ultimi, dispettosi colpi di coda – dovranno finalmente lasciare il passo a una più seria valutazione degli impegni delineati dal capo del governo. L’agenda stilata da Prodi definisce nettamente il profilo di un governo di centrosinistra: in politica estera, con il ritiro delle truppe dall’Iraq; in economia, con il taglio del cuneo fiscale e il credito d’imposta; sui diritti, con le misure a favore delle donne nell’accesso alla politica (le quote rosa) e la riforma del diritto di cittadinanza per gli immigrati. Su questa agenda si misurerà da oggi in poi l’efficacia dell’azione di governo. E nel merito di queste scelte dovranno concentrarsi le critiche. A cominciare dalla giustizia, se effettivamente l’annunciata revisione della legge Pecorella dovesse risolversi nella cancellazione del principio sacrosanto in base al quale un cittadino che sia stato assolto non può essere sottoposto una seconda volta allo stesso processo. Di tutto questo occorrerà discutere, da oggi in poi, nella speranza che i nostri migliori cronisti siano finalmente liberati dal grave compito di interrogare quotidianamente il ministro dei Trasporti sulle sue vedute in materia di politica internazionale, analisi geostrategica o filosofia morale.
Qui si misurerà dunque la tenuta della maggioranza e la capacità di reggere ai ricorrenti tentativi di scalata ostile. Ma non potrà reggere a lungo, finché la sua leadership sarà esposta a tutti i rastrellamenti, le continue operazioni di aggiotaggio e di insider trading messi in campo da tanti aspiranti demiurghi della politica. Per resistere a quella stessa offensiva, Silvio Berlusconi si è dimostrato abilissimo nell’occupare tutti gli spazi, prima mettendosi per primo sulla porta delle larghe intese, proponendo egli stesso alla maggioranza un governo di Grosse Koalition, quindi richiudendola a doppia mandata, alzando i toni dello scontro fino al parossismo così da schierare l’intero elettorato di centrodestra a guardia dei confini. Una tattica sicuramente efficace in vista delle amministrative, ma difficilmente ripetibile dopo il referendum sulla devolution.
Prodi però ha un vantaggio: la costruzione del partito democratico è a uno stadio ben più avanzato di quel partito unico dei moderati invocato a fasi alterne dal Cavaliere e regolarmente respinto dai suoi alleati. Fissata l’agenda del governo, dunque, occorre fissare l’agenda del partito. Unica sede legittima e realmente rappresentativa in cui perseguire anche il necessario ricambio dei gruppi dirigenti. Un ricambio culturale, politico e generazionale che permetta finalmente al centrosinistra di uscire dalla estenuata riedizione delle discordie civili degli anni Novanta, prima che qualcuno chiami in soccorso nuovi generali senza esercito o – peggio – sostenuti da eserciti stranieri.