La storia di questi anni lo ha già ampiamente dimostrato: il peggior nemico del partito democratico sono le parole inutili. La linea politica che tutti i sinceri sostenitori della nuova formazione dovrebbero adottare è dunque la linea della chiarezza. Un partito democratico in Italia serve se si dà come manifesto il proprio stesso nome e come programma politico un testo di una sola riga, in cui al primo e ultimo punto stia scritto che il progetto del partito si riassume nel seguente principio: una testa, un voto. Fine del programma. In Italia, si tratterebbe di un principio rivoluzionario. Tanto nella politica come nell’economia e in ogni altro campo della vita associata.
La discussione sul partito democratico ha subito da poco una nuova evoluzione: dopo le ultime elezioni amministrative non c’è un solo dirigente nazionale o amministratore locale di qualche peso dei Ds o della Margherita che non abbia esortato a procedere rapidamente alla sua costruzione. Il dibattito si è così spostato sui modi concreti di realizzare un obiettivo ormai pressoché unanimemente condiviso.
In un lunghissimo articolo pubblicato sabato sul Riformista Michele Salvati propone la formazione di un comitato costituente, illustrando ipotesi molto dettagliate sui diversi percorsi che si potrebbero seguire. Curiosamente, però, conclude invitando Fassino e Rutelli a sciogliere – prima ancora di cominciare – i nodi dei vertici politici e della collocazione europea della nuova formazione. Ben strano partito democratico, quello che nascesse ritrovandosi già eletti segretario e gruppo dirigente, e già decisa la propria collocazione internazionale! Ma lasciando da parte questa singolare contraddizione, per una volta possiamo dire di condividere il senso della proposta di Michele Salvati. Dal momento in cui la volontà politica è stata ampiamente manifestata, occorre stabilire un percorso e mettersi in cammino senza ulteriori tentennamenti.
Lo stesso giorno dell’articolo di Salvati sul Riformista, però, Gregorio Gitti ha avanzato sul Corriere della sera una proposta di segno piuttosto diverso: Romano Prodi, “mediante un appello contenente il manifesto del futuro partito”, convochi “comizi elettorali” aperti a tutti i cittadini, organizzati secondo un sistema di voto di lista su base regionale, eliminando così il problema delle quote riservate ai “partiti storici” e permettendo di “strutturare il futuro partito come federazione di partiti regionali, al fine di reclutare una classe dirigente espressione del territorio e di selezionare conseguenti proposte politiche adeguate”. Anche qui tralasciamo alcuni dettagli poco convincenti, come l’infatuazione per il voto telematico – peraltro assai diffusa – e l’idea che la “quota associativa” possa essere “quantificabile in modo volontario dallo stesso associato”. Il merito maggiore dell’articolo consiste comunque nel respingere seccamente l’ipotesi, da più parti affacciata, che il segretario del partito possa essere eletto attraverso elezioni primarie. “Un’idea inaccettabile perché risponde a una logica plebiscitaria e non partecipativa”.
Entrambe le proposte, quella di Salvati e quella di Gitti, insieme alle molte più o meno esplicitamente avanzate nelle tante interviste di questi giorni, si inseriscono in un ampio campo di forze in cui si riflettono – com’era inevitabile – interessi, culture politiche e opzioni strategiche spesso nettamente divergenti. Di entrambe le proposte, pur molto diverse, condividiamo però l’impostazione iniziale: non è vero che le forme organizzative siano soltanto l’ultimo passaggio formale, quasi una banale questione di procedure. Non è vero che le forme organizzative debbano seguire necessariamente un’altra interminabile stagione di approfonditi dibattiti – naturalmente di alto livello, naturalmente sui grandi valori – da riesumare ancora una volta al grido: i partiti non si inventano a tavolino! Obiettiamo: i partiti non si inventano nemmeno al tavolo di un convegno, men che meno al termine di dieci, cento o mille dibattiti tra dirigenti di partito.
Da questo punto di vista la dinamica della svolta occhettiana dovrebbe insegnare qualcosa: nel 1990 si fece un congresso per stabilire di aprire una nuova grande fase costituente, al termine della quale tirare le somme per decidere se cambiare anche nome e simbolo del Pci, quindi si dichiarò chiusa l’anno dopo una nuova grande fase costituente che in verità non si era mai aperta, cambiando ugualmente nome e simbolo del Pci. Il seguito della storia è noto: dopo due anni persi in un dibattito lacerante, al solo scopo di evitare una rottura a sinistra, si finiva con una scissione pesantissima anche in termini di voti. Un gioco a somma negativa in cui i voti di Pds e Rifondazione facevano meno dell’ultimo risultato del Pci.
Non a caso la contraddizione più evidente è proprio in quei dirigenti, presenti nei Ds come nella Margherita, i quali nell’unificazione vedono lo sradicamento della propria tradizione storica, se non addirittura la morte della politica. Obiettiamo: quale tradizione storica, quale forza politica che abbia ancora una funzione e un radicamento reali può avere qualcosa da temere dal semplice allargamento del proprio campo di azione? A meno che non si consideri quella tradizione già morta, incapace di parlare ad altri che non ne siano già parte integrante, per quale ragione un partito che abbia fiducia nella propria funzione di rappresentanza, negli interessi e nei principi che difende o lotta per affermare, nel proprio radicamento sociale, perché mai un partito simile dovrebbe temere il confronto democratico e l’apertura delle proprie file a chi voglia condividerne il percorso?
Solo un gruppo dirigente che percepisca se stesso come residuale, per non dire parassitario, avrebbe ragione di preferire il porto tranquillo del proprio ridotto insediamento alla navigazione in mare aperto. I partiti non si inventano a tavolino, questo è certo, ma tanto meno in estenuanti degustazioni di valori per il fine palato degli intenditori. Quello che serve è una grande iniziativa popolare, come furono le primarie. Una giornata in cui in tutta Italia si riaprano le sezioni e i gazebo, in cui tanti di quei tre milioni di cittadini che a ottobre lì sono venuti per votare il candidato dell’Ulivo, lì possano finalmente tornare per iscriversi al partito democratico. Iscriversi: presentarsi fisicamente in una sede a questo scopo deputata, pagare una cifra minima prestabilita e possibilmente non irrisoria, prendere una tessera. Una giornata reale, fatta di persone reali che decidono di uscire di casa, fisicamente, mostrando la propria testa e – un giorno speriamo non troppo lontano – esprimendo il proprio voto. Secondo quel principio che vorremmo fosse anche l’unico autentico valore del quale fossero tenuti a preoccuparsi i dirigenti del nuovo partito: una testa, un voto.
Solo così, attraverso una giornata di mobilitazione popolare che culmini in un atto formale e verificabile, che implica diritti e responsabilità certe, come l’iscrizione a un partito – sia pure un partito ancora da costruire, dunque con tutte le approssimazioni del caso – sarà possibile ridare slancio a un progetto che altrimenti rischia di finire in due modi ugualmente pessimi. In mano ai professionisti della politica chiusi dietro i loro tavoli, i loro dibattiti e le loro contrattazioni, oppure in mano ai professionisti della società civile, ai quali l’inerzia dei partiti potrebbe lasciare uno spazio che essi non mancherebbero di usurpare, autonominandosi custodi e rappresentanti di un popolo che non li ha mai eletti.
Qui sta la sfida – anche – di chi voglia realmente guidare quel ricambio generazionale di cui tanto spesso si discute, quasi sempre a sproposito e molto spesso in modo strumentale. E’ dalle nuove leve dei Ds e della Margherita che deve venire la spinta più forte a mollare gli ormeggi, per suscitare la partecipazione di un nuovo popolo – si potrebbe dire la base sociale dell’Ulivo – da tempo in attesa di un segnale. Qui si parranno la forza e il coraggio di una nuova possibile classe dirigente: se saprà mescolarsi a quel popolo, suscitarne la partecipazione e raccoglierne il consenso. Vadano avanti ora, gli intenditori seguiranno.