Dopo una lunga attesa, un’attesa che per qualcuno è durata più o meno venticinque anni, lunedì è andata finalmente in onda la nuova puntata di Twin Peaks. È stato come quando sai che rivedrai una persona di cui sei stato innamorato tanti anni prima, e che quando tutto è finito non hai più incontrato nemmeno per caso: hai preferito conservare intatti i ricordi di quei giorni felici e burrascosi, intensi e complicati. Senza capire bene se i ricordi siano qualcosa che abbiamo o che abbiamo perso, come si chiedeva Woody Allen in uno dei suoi film più pensosi. Per questo rivederla un po’ ti spaventa. Ed è così anche con Twin Peaks, perché venticinque anni sono tanti, tu sei invecchiato e il modo di fare tv è cambiato. Ma non puoi che superare la paura e accendere il televisore – sì, potresti fare come al solito e usare il tablet, ma nel 1991 si faceva così e devi rispettare il rito – e prepararti a vedere la misteriosissima terza stagione, ancora una volta ideata e diretta da David Lynch.
Per quei pochi sfortunati che non sanno di cosa stia parlando, che non hanno idea di chi sia Laura Palmer, che non hanno passato ore a chiedersi chi mai fosse Diane, si tratta di un evento televisivo globale che un quarto di secolo fa ha cambiato il modo di concepire la televisione e senza il quale le serie tv probabilmente non sarebbero quello che sono oggi. E il problema forse è proprio questo. Twin Peaks era qualcosa di più di tutto quello che è venuto dopo. Secondo i più critici la trama dopo un po’ perdeva senso, sembrava quasi arrancare dietro alle intuizioni del suo autore. I salti logici erano eccessivi e spesso ingiustificati. Obiezioni che magari avevano un loro fondamento, ma che non tenevano conto del punto centrale: l’essenza di Twin Peaks non era la sua trama o le indagini di Cooper o l’assassinio di Laura Palmer. Il cuore (e il fascino) era nelle atmosfere che a poco a poco ti conquistavano, nei dettagli che diventavano progressivamente protagonisti della scena, nei tanti piccoli tormentoni, in quel procedere sempre sul confine tra razionale e irrazionale. Che alla fine ti teneva comunque lì.
Ecco, nelle prime due puntate della terza stagione tutto questo non c’è. E quasi subito subentra un certo senso di delusione, per quella magia di allora che non si ricrea. Certo, ti incuriosisce scoprire che fine hanno fatto i personaggi, come sono invecchiati. Chi c’è e chi non c’è. Il pilot è un pilot tutto sommato ordinario. Anche eccessivamente confuso nell’affastellare nuove storie e richiami alla fine della seconda stagione. Ma purtroppo non bastano gli occhiali del dottor Jacoby, i boschi oscuri, il ceppo che manda ancora messaggi a emozionarti. Insomma, non è quello che ti aspettavi. Tanto che ti ritrovi a pensare che forse non riuscirai a continuare oltre. Che magari è meglio dedicarsi a qualche serie con meno ambizioni.
Poi però, all’improvviso, succede: parte la vecchia musica, il locale è sempre quello e tutto sommato anche gli avventori. E ti ritrovi all’improvviso circondato da quell’atmosfera. Forse è solo un caso. O forse è Lynch che ha voluto giocare, portandoti a spasso per quasi due ore fin quasi a farti perdere per poi darti quello che volevi, quando ormai avevi rinunciato. Forse ha voluto innervosirti e prenderti in giro ancora una volta, per poi ricominciare a stupirti. O forse no, forse è solo una scena ben riuscita. Per scoprirlo bisognerà aspettare la prossima puntata.
E forse è proprio questa la miglior risposta, perché una cosa è sicura: l’attesa di una nuova puntata di Twin Peaks è essa stessa Twin Peaks.