Il primo passo era senza dubbio il più difficile, ma è stato compiuto il 30 gennaio dagli iracheni che sono andati a votare sotto le bombe. In massa, possiamo dire oggi, visto che la commissione elettorale ha dichiarato un’affluenza vicina al sessanta per cento. Il secondo passo era meno difficile ma forse persino più critico: attendere l’esito di quel voto da cui molti prevedevano sarebbe sorta una nuova teocrazia islamica (ipotesi che peraltro non ci sentiremmo di escludere neanche ora). Da questo punto di vista i risultati annunciati domenica sembrano comunque tranquillizzanti: la coalizione sciita raccoglie il 47 per cento dei voti, non raggiunge la maggioranza assoluta ed è ben lontana da quei due terzi necessari a eleggere il futuro presidente e i suoi due vice. Il terzo passo, apparentemente il più facile di tutti, sarebbe dunque quello di attendere che l’assemblea finalmente e democraticamente eletta dal popolo iracheno esprima la propria volontà.
Vogliono i rappresentanti del nuovo Iraq che le forze alleate restino a garantire la sicurezza? Se sono loro a volerlo e a chiederlo, difficilmente sarà un Pecoraro italiano a fermarle. Perché in tal caso non ci sarebbe una sola ragione per non votare sì a qualsiasi decreto di rifinanziamento di qualsivoglia missione militare, comunque formulato. Vogliono che le truppe di occupazione sloggino? Ebbene, se questo dicessero invece gli eletti del popolo, alle suddette truppe non resterebbero che due opzioni: o ricominciare da capo con il cambio di regime e la roulette delle elezioni fino a che non esce il loro numero, oppure sloggiare. Sarà forse una lettura superficiale, ma a noi sembra che le cose stiano così e che basti un po’ di buon senso per afferrarne la sostanza.
Le elezioni hanno rappresentato certamente un passaggio fondamentale, ma non hanno eliminato alcuna delle principali incognite sul futuro dell’Iraq: il coinvolgimento della minoranza sunnita (che infatti non ha votato), la fine del terrorismo (che continua a colpire ogni giorno), il rischio che il divampare della guerra civile (che c’è già) porti alla definitiva balcanizzazione del paese. Inutile spiegare perché una nuova ex Jugoslavia tra l’Iran e la Siria sarebbe oggi cento volte peggio di quella che ha fatto sanguinare l’Europa per buona parte degli anni ’90, nonché mille volte più pericolosa (ci si perdoni la vena polemica) della dittatura retta da Saddam.
Visto che siamo in vena polemica, vorremmo usare qui parole cariche di disprezzo per tutti coloro che in una situazione tanto delicata hanno cercato soltanto il proprio tornaconto elettorale. E a rischio di passare per amici del giaguaro, dobbiamo riconoscere che di tutti i tentativi di strumentalizzazione, il peggiore ci è parso quello avvolto nelle bandiere arcobaleno e negli alti valori della sinistra radicale. A tutti quei politici che si sono precipitati a fare le barricate contro ogni ipotesi di voto a favore o anche solo di astensione sul rifinanziamento della missione italiana, a coloro che sono tornati di corsa a parlare di ritiro immediato, a tutti costoro vorremmo ricordare semplicemente che gli iracheni hanno votato. E dunque, come essi stessi dicevano un tempo: potere al popolo.