In Francia, la famiglia reale è stata decapitata da una rivoluzione popolare e democratica destinata a cambiare il corso della storia dell’umanità. In Russia, i Romanov sono stati condannati a morte dalla rivoluzione bolscevica, che la storia del mondo ha segnato per quasi un secolo. In Italia, il figlio dell’ultimo re di Casa Savoia è stato ghigliottinato sulla pubblica piazza in questi giorni, a sessant’anni dalla fine della monarchia, attraverso intercettazioni pubblicate sui giornali.
Con l’arresto di Vittorio Emanuele di Savoia e la pubblicazione in tempo reale delle sue conversazioni private, ancora una volta, la gogna pubblica viene decretata prima che un solo avvocato difensore abbia potuto prendere la parola in un regolare processo. Ancora una volta un eterogeneo gruppo di persone, tra le quali Vittorio Emanuele e il portavoce di Gianfranco Fini, subiscono gli effetti di provvedimenti cautelari pesantissimi come l’arresto e il marchio di accuse infamanti, come le intercettazioni prontamente pubblicate sui quotidiani, tutti giustificati come di consueto dall’accusa di associazione a delinquere. Ancora una volta, indagati che dovrebbero essere considerati innocenti fino a prova contraria sono esposti alla pubblica esecrazione, insieme a persone che hanno l’unica colpa di avere parlato al telefono con uno di loro o anche solo di essere state citate nelle loro conversazioni.
La celebre formula che si ripete al momento dell’arresto: “Ha il diritto di rimanere in silenzio, perché quanto dirà potrà essere usato contro di lei in tribunale” si è trasformata in Italia nel ben più terribile: “Non ha il diritto di parlare liberamente in nessun luogo e in nessun momento della sua vita, perché quanto dirà potrà sempre essere usato contro di lei, dalle pagine di tutti i giornali”.
Se si vuole la prova definitiva del mutamento avvenuto nella cultura giuridica del nostro paese, ebbene, si prendano le parole del gip che ha disposto l’arresto. Il giornalista che domenica lo ha intervistato su Repubblica cita le critiche mosse all’inchiesta da Francesco Cossiga. Il giudice – il giudice per le indagini preliminari, cioè quella figura istituita nel nostro ordinamento al preciso scopo di evitare abusi da parte della pubblica accusa – risponde testualmente: “Se il senatore Cossiga avesse conosciuto il giudizio di Vittorio Emanuele di Savoia sui sardi sono sicuro che non avrebbe parlato così. Ci sono alcune telefonate inquietanti. Nelle quali il principe definisce i sardi come ‘capre’ e anche gli italiani… ma non posso dire altro, c’è il segreto istruttorio. Comunque anche i pesantissimi apprezzamenti sulla Sgrena mi hanno colpito”.
Chiaro? Se il sardo Cossiga avesse saputo cosa diceva dei sardi Vittorio Emanuele di Savoia nelle sue private conversazioni telefoniche, allora certo non avrebbe criticato l’inchiesta. C’è il segreto istruttorio, dice il gip, ma non si trattiene dal fornirci le informazioni essenziali, affinché il popolo possa capire che razza d’uomo è l’individuo che è stato appena sbattuto in galera. Non solo, ci dice pure di essere rimasto colpito dai suoi pesanti apprezzamenti sulla Sgrena. E il segreto istruttorio, poi, è tale che i lettori interessati alle parole del principe in merito ai sardi e alle capre possono leggerle nelle due pagine precedenti dello stesso giornale.
Quale rilevanza penale e quale interesse hanno i sardi, la Sgrena e tutti i giudizi espressi da Vittorio Emanuele sull’universo mondo, ai fini dell’inchiesta? Per quale ragione quelle parole dovrebbero colpire il giudice chiamato a decidere se disporne l’arresto o meno? Quel giudice, ripetiamo, che dovrebbe svolgere una funzione di garanzia dei diritti degli indagati, che dovrebbe vigilare sulla correttezza dell’operato dei pm e che invece, a quanto pare, preferisce rintuzzare le critiche mettendo in piazza le private conversazioni dell’indagato. Evidentemente convinto – e questo è senza dubbio l’aspetto più inquietante – che chi ne difenda i diritti da eventuali abusi degli inquirenti “non parlerebbe così” se sapesse quale persona esecrabile sia Vittorio Emanuele. Una simile ricerca del consenso popolare attraverso l’utilizzo delle private conversazioni dell’indagato, conversazioni che per di più nulla hanno a che vedere con ciò di cui è accusato, somigliano molto a un processo di piazza che è fuori dallo stato di diritto e da ogni minimo principio di civiltà giuridica.
Sappiamo bene che in tutto questo non c’è nessuna novità. E sappiamo altrettanto bene quanto sia improbabile che la situazione cambi, almeno in un prossimo futuro. Dagli anni Novanta a oggi, tutti i partiti della Repubblica – nessuno escluso – sono finiti in qualche modo sotto tutela. Il potere reale è esercitato dall’intreccio tra i gruppi economici che controllano tutti i principali giornali e il potere autoreferente di chi esercita, come si vede nella più assoluta discrezionalità, l’azione penale. L’ultima prova se ne è avuta quando i circoli finanziari di cui sopra si sono sentiti improvvisamente sotto attacco, nella lunga estate delle scalate alle banche e alla Rcs del 2005, di cui ci siamo già abbondantemente occupati. La reazione è stata veemente, condotta con il solito gioco di sponda tra provvedimenti cautelari esorbitanti e la costruzione di un clima di opinione favorevole, attraverso la gogna delle intercettazioni pubblicate sui giornali.
Quella che dal ’92 a oggi si ripete ciclicamente è dunque la rappresentazione fittizia di una rivoluzione popolare senza il popolo, guidata dall’alto, capace di tenere in scacco le massime istituzioni della Repubblica e tutti i partiti, sotto la costante minaccia rappresentata da un simile ingranaggio infernale. Cosa importa infatti se tra qualche anno, quando nessuno se ne ricorderà più, qualcuno o anche tutti gli indagati di oggi e di ieri risulteranno innocenti e verranno assolti, magari con formula piena? La sentenza sulla moralità dei loro costumi, sulla conformità delle loro personali opinioni sui sardi, sulla Sgrena o su qualsiasi altra cosa è già stata emanata. Naturale che siano in pochi, tra i leader politici, a volere assaggiare una simile frusta.
Eppure proprio la fine del berlusconismo, con le sue leggi ad personam e i suoi molti scheletri nell’armadio, rappresenterebbe un’occasione irripetibile, per chi avesse il coraggio di coglierla. E’ questa la sola autentica rivoluzione democratica oggi necessaria all’Italia: spezzare il perverso intreccio dei poteri irresponsabili che condizionano tanto pesantemente lo sviluppo politico, economico e civile del paese.
Non ci facciamo troppe illusioni sulle probabilità che la questione venga posta all’ordine del giorno. Ma almeno si sappia e sia messo agli atti che qualunque esponente della sinistra più e meno radicale chiacchieri di altre rivoluzioni possibili e di altri più urgenti bisogni delle masse, nella migliore delle ipotesi è uno sprovveduto.