Cos’è quello che vedi? E’, ad esempio, il tetto rosso della casa del tuo vicino. Oppure è il tetto di una casa rossa? Oppure vedi una casa e il suo tetto rosso? Oppure non vedi propriamente né il tetto né la casa, perché del tetto e della casa vedi solo la porzione anteriore? Ma vedi forse l’anteriorità? Di sicuro non la vedi, ma che tu veda la porzione anteriore dipende strettamente dal fatto che tu conosca già le case, e i tetti, e hai ragione di supporre che hanno una porzione posteriore, quella che non vedi. Quel che vedi, lo vedi dunque così come lo vedi anche grazie a ciò che non vedi. E che dire poi del fatto che una parte del tetto che vedi è in ombra, ed è più scura, mentre un’altra è più chiara, ed è al sole? E che dire delle tegole? Perché hai scelto il livello di descrizione in cui quel che vedi ti appare come un tetto, e non invece come somma di tegole? E perché non dici nulla dello sfondo, ma solo della figura, benché la figura non sarebbe quella che vedi se non si stagliasse sullo sfondo? E se quel che vedi riconosci che è la casa del tuo vicino, perché non dire anche che vedi un gruppo ordinato di tegole e riconosci che è un tetto? Dove finisce quello che vedi e dove comincia quello che riconosci in ciò che vedi? Senza dire che in tutte queste domande il linguaggio ti ha fornito un grosso aiuto nel tenere fermo ciò intorno a cui ti chiedevi cosa fosse. Grazie al pronome “ciò”, tieni ferma la cosa e ti chiedi come vada descritta, benché tu non abbia mai visto il “ciò” che vuoi descrivere con tanta cura, e benché non sia nemmeno chiaro se vi sia qualcosa del genere: un “ciò” che se ne sta lì, in fondo al viale, in attesa di essere descritto come tegola, come tetto, come casa o come casa del vicino. Che se poi un simile “ciò” non c’è, cos’è quello che vedi?
Tu vedi; e subito si fanno addosso al tuo sguardo i problemi della mereologia (vedi il tutto o una somma di parti?); i problemi dell’intuizione eidetica (vedi forse l’anteriorità?); i problemi dell’adombramento dell’intero (vedi la cosa o il suo aspetto in ombra?); i problemi della Gestaltpsychologie (come si disegna la figura sullo sfondo?); i problemi del vedere che e del vedere come (cosa vedi e cosa invece riconosci?), e mille altri problemi.
Di piccoli esercizi come questo potremmo condurne molti. In un saggio sull’eredità fenomenologica, Gadamer, uno dei padri dell’ermeneutica filosofica contemporanea, ricorda i bei tempi d’inizio ‘900, quando si potevano tenere nelle università tedesche corsi di lezioni sulla fenomenologia di una cassetta postale, poiché ci voleva un semestre per capire cosa si vede quando si vede una cassetta postale. La parola magica era intuizione, e le chiacchiere libresche dovevano cederle il passo. Platone e Aristotele non erano autori di libri (in effetti: non lo sono mai stati), e occuparsi di loro non significava sapere quel che hanno scritto, ma vedere ciò che essi hanno visto per capire quel che hanno scritto. Ma chi ha più occhi per vedere quel che hanno visto loro? Chi parla ancora di ciò che vede, invece di ripetere ciò che ascolta, riferire ciò che legge, replicare cliché, eseguire istruzioni, e infine fare eco quando non semplicemente rumore?
Ma il mito di Eco e Narciso narrato da Ovidio nelle Metamorfosi racconta un’altra cosa. Racconta dell’incontro mancato tra lo sguardo e la parola: tra il giovane Narciso innamorato solo della propria immagine riflessa, e la ninfa Eco, innamorata di Narciso ma condannata dagli dèi a ripetere solo le parole altrui. Racconta cioè l’infelicità di una parola, quella ripetitiva di Eco, senza un proprio sguardo sul mondo, ma anche quella di uno sguardo, quello muto di Narciso, che senza le parole dell’altro non vede affatto il mondo, ma solo se stesso in uno specchio d’acqua.
Fuori di metafora, quando Raffaele La Capria scrive (sul Corriere, 13/06/2006) che la vera catastrofe culturale del nostro tempo è il concettualismo troppo astratto, sono le astrazioni ideologiche, è la malattia ermeneutica, è la tendenza a teorizzare su tutto, ha ragione, ma ha ragione solo a metà. Dispera a ragione che l’eco assordante delle voci del nostro tempo possa mai raggiungere il cielo dell’oggetto amato, senza attossicarsi nel fumo dei concetti; ma non vede che anche Narciso resta senza oggetto, e finché vede da solo, finché non incontra nel linguaggio la prospettiva dell’altro, non vede altri che se stesso.
La Capria confida nel “common sense inteso come «logica elementare» contro la «logica ideologica»”. Ma a parte la considerazione elementare che non appartiene affatto al senso comune parlare virgolettando le proprie parole, se c’è una cosa che ha una pericolosa struttura narcisistica, nel senso almeno che non riesce a uscire da sé per vedere veramente il mondo, è proprio quel comune buon senso a cui si appella La Capria, quella falsa immediatezza che può avanzare i suoi diritti solo contro la cattiva astrazione, ma che sarebbe meglio cedesse il passo all’autentico lavoro della teoria. Perché certo: nessuno può vedere al tuo posto; ma per dire quel che si vede non basta rimanere al proprio posto. E il linguaggio, e i concetti, e la teoria, sono proprio il luogo in cui possiamo scambiarci di posto con gli altri.
(C’è, per esempio, un embrione. Sarà forse di buon senso pensare che è come un piccolo uomo, ma tu cosa vedi propriamente, lì? E dove finisce quello che vedi – temo: molto presto – e dove comincia quello che riconosci in ciò che vedi? E come puoi provare a riconoscere qualcosa in quel che vedi, senza parole, senza linguaggio, senza teoria? Non so quante domande si faccia al riguardo il common sense, e se farsele significhi teorizzare su tutto; so che preferisco mille domande a una sola risposta di senso comune).