Galileo, Newton, Dan Peterson. Il primo lo intuì, il secondo lo sistematizzò, il terzo lo elevò a concetto-guida di un’intera filosofia applicata al basket. Si tratta, naturalmente, del concetto di inerzia.
Per chi non avesse mai studiato la storia della fisica, dicesi inerzia la tendenza di un corpo dotato di massa a persistere nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, cioè, volendo forzare un po’ le cose al nobile fine di divulgarle, la “resistenza” che un qualunque oggetto pesante lanciato in velocità oppone a ogni tentativo di frenarne la corsa.
Per chi non avesse mai ascoltato una telecronaca del grande coach della Milano cestistica vincente in Italia e in Europa a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta: nel basket inerzia favorevole significa piazzare un parziale significativo, mettere a segno una serie di giocate anche difficili facendole sembrare semplici, volare sulle ali dell’entusiasmo, magari grazie al sostegno del pubblico. Inerzia contraria significa sbagliare scioccamente giocate semplici, non riuscire a muovere il punteggio per minuti, giocare nel gelo della mente, delle mani, degli spalti. Peterson predicava lo sfruttamento omicida (con la squadra avversaria nel ruolo della vittima designata) delle fasi di inerzia favorevole. Una sorta di effetto volano: quando la squadra piazza un buon parziale, sta ai giocatori più forti e carismatici prendere palla e trattarla nel migliore dei modi, attaccando i punti deboli degli avversari e cercando di scavare un solco insormontabile a vantaggio della propria squadra. Così il break si allungherà, i rivali si demoralizzeranno, l’inerzia favorevole aumenterà e per la squadra avversaria sarà sempre più difficile tornare sotto e invertire, per l’appunto, l’inerzia della partita.
Una teoria perfetta, e il bello è che funziona anche in pratica.
Ogni tanto, tuttavia, quel meraviglioso sport che è il basket è ancora capace di stupire e di sovvertire una delle sue leggi più universalmente riconosciute. Un esempio? In questi giorni negli Usa l’evento sportivo che mobilita i tifosi, accende le discussioni e mette milioni di americani davanti ai televisori non sono i mondiali di calcio, bensì le finali dell’Nba. Di fronte, dopo tre combattutissime e spettacolari serie di playoff, si trovano due squadre entrambe alla prima finale della loro storia: i Dallas Mavericks contro i Miami Heats.
Il giudizio degli esperti all’inizio della serie vedeva Dallas nel ruolo di grande favorita. Appariva squadra più compatta, senza punti deboli, impreziosita dall’apporto di diversi fuoriclasse, tra i quali spicca Dirk Nowitzki, tedesco d’origine, una sorta di Larry Bird redivivo solo molto più tamarro, due metri e tredici di spilungone con mani capaci di piazzare devastanti tiri da lontano. Gli altri, quelli di Miami, sono una specie di armata Brancaleone: una raccolta di vecchie glorie sul viale del tramonto, buoni giocatori privi però del talento per essere giudicati fuoriclasse, onesti comprimari. Poi, due star: il vecchio gigante Shaquille O’Neal, un cartone animato nero di centoquaranta chili già tre volte campione Nba quando – decisamente più giovane e magro – giocava a Los Angeles in una squadra schiacciasassi, e il giovanissimo Dwyane Wade, folletto ventiquattrenne dal talento spropositato per il quale già vengono proposti paragoni con Michael Jordan. Al termine della regular season Dallas figurava tra le favoritissime per il titolo, mentre Miami, dopo una stagione ottima, ma non eccezionale, si presentava al più come outsider. I Mavericks hanno svolto il loro percorso facendo fuori un paio di squadroni (tra i quali, nel derby texano, anche i campioni uscenti di San Antonio) in quelle che la stampa ha considerato finali anticipate; gli Heats sono arrivati alla finale in sordina, quasi senza avere l’aria di crederci veramente.
Le prime due partite della serie finale al meglio delle sette, giocate entrambe a Dallas, non hanno avuto storia. Pronti, via: due a zero per la squadra di Nowitzki, il Bird tamarro. Tutto secondo pronostico. Miami sembrava già spacciata. Le partite dalla terza all’eventuale quinta si giocano, secondo la regola Nba, sul campo di Miami. A Dallas sarebbe bastata una vittoria su tre partite per poter tornare in relativa tranquillità a casa e piazzare il match ball, ma l’opinione prevalente era che i Mavericks avrebbero spazzato via gli Heats in non più di quattro o al massimo cinque partite, e che quindi avrebbero chiuso la serie in trasferta.
La terza partita sembrava confermare il pronostico. Dopo due tempi equilibrati con Miami aggrappata al match grazie al sostegno del tifo amico, nel terzo quarto Dallas ha preso il largo: 34 a 16 di parziale e partita saldamente controllata. A sei minuti e trentaquattro secondi dalla fine dell’incontro (cioè a sette ottavi di partita già giocata) ai Mavericks stava funzionando tutto alla perfezione e si trovavano in vantaggio di tredici punti. Insomma, in una parola: inerzia. Schiacciante, invincibile, devastante inerzia. La stessa arena stracolma di tifosi di Miami s’era ammutolita. Nessuno ci credeva più. Volendo fare un paragone calcistico: tre a zero a un quarto d’ora dal novantesimo. All’improvviso, tuttavia, i Mavericks, quel tir lanciato a centocinquanta all’ora verso la vittoria, sono finiti contro un muro. Un muro fatto di niente, in apparenza. I tiri che fino ad allora erano entrati non entravano più. In compenso, entravano ai loro avversari. Piano piano, punto a punto, in quei sei minuti e trentaquattro secondi gli Heats, guidati dal fenomeno Wade autore alla fine di 42 punti, hanno piazzato un parziale di 21 a 6 e sono riusciti a riportarsi sotto e a sorpassare i loro avversari a nove secondi dal termine con un canestro del loro giocatore fino a quel punto più deludente, Gary Payton. Infine, negli ultimi istanti di gioco, Dirk Nowitzki ha avuto nelle mani la possibilità di ribaltare ulteriormente l’esito della partita: s’è gettato verso il canestro, ha subito un fallo, s’è ritrovato sulla linea dei tiri liberi. E a quel punto proprio lui, che in media per tutta la stagione ne ha messi nove su dieci, ne ha sbagliato uno su due, consegnando la vittoria agli Heats.
Nella gara successiva, la quarta della serie, gli Heats hanno controllato il match dall’inizio alla fine, hanno vinto con più di venti punti di scarto (Wade, per rimarcare il proprio talento, ne ha piazzati da solo la bellezza di 36) e hanno impattato la finale sul due a due.
Ora il titolo Nba verrà assegnato al termine di quella che, in pratica, è una miniserie di tre partite: la prima in casa di Miami si è giocata nella notte tra domenica e lunedì, le ultime due si giocheranno ancora in Texas. Difficile dire che cosa possa succedere. Certo è che l’inerzia, adesso, sembra essere tutta dalla parte di Miami.