La riforma del codice antimafia recentemente approvata dal Senato, e che dovrà ora essere votata alla Camera, prevede tra l’altro l’estensione della confisca preventiva per i patrimoni mafiosi anche all’indiziato per un solo reato contro la pubblica amministrazione, ed è pertanto emblematica del vicolo cieco in cui la politica italiana si è andata a infilare. La confisca di prevenzione è una misura introdotta per colpire l’accumulazione di ricchezza da parte delle organizzazioni criminali, attraverso una presunzione legislativa per cui il patrimonio di chi è sospettato di appartenere a un sodalizio mafioso non può che essere il frutto di condotte illecite, anticipando così la condanna definitiva.
Si tratta di uno strumento eccezionale, che deroga a principi costituzionali elementari come la presunzione di innocenza, e che presenta caratteristiche peculiari legate all’eccezionalità e alla violenza della minaccia mafiosa. La riforma approvata al Senato prevede l’estensione di questo strumento anche ai patrimoni degli indiziati di reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione, il peculato, la concussione. Reati profondamente diversi da quelli di stampo mafioso, per i quali non è prevista un’affiliazione a un’organizzazione criminale, e che spesso non sono commessi con le modalità caratteristiche delle associazioni criminali.
L’estensione poliziottesca di questo stato di eccezione al campo della corruzione è sicuramente fonte di applausi da parte dell’opinione pubblica, per la quale il diritto penale delle garanzie è sempre più un diaframma che ci separa dalla moralità pubblica; poter usare in un unico frame le parole antimafia e corruzione rappresenta senza dubbio una cambiale elettorale da riscuotere, ma è una concessione unilaterale a una concezione giustizialista e autoritaria del diritto. Le critiche alla riforma sono trasversali e autorevoli: da giuristi come Fiandaca, Cassese, Verde, a politici come Violante, fino al capo dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone – il cui parere sul tema dovrebbe essere considerato sufficientemente autorevole – che la giudica una riforma «né utile, né opportuna», e forse persino «controproducente».
La riforma non è utile, spiega Cantone, perché nei confronti di organizzazioni mafiose che si avvalgono della corruzione può essere applicata la normativa vigente; non è opportuna e non serve perché a certe condizioni è applicabile anche a reati corruttivi commessi sistematicamente; è controproducente perché la legislazione antimafia ha retto fino a oggi al vaglio della Corte Costituzionale e delle corti europee proprio in virtù della sua emergenzialità, mentre un’estensione indiscriminata a reati che sono un’emergenza solo secondo la percezione, e non secondo le statistiche, potrebbe aprire nuove brecce di incostituzionalità.
L’estensione delle norme del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione risponde a una logica pericolosa di espansione di strumenti emergenziali nati per contrastare fenomeni criminosi eccezionali, in nome di un segnale di fermezza e onestà che la politica vorrebbe dare all’opinione pubblica. È un’altra scelta di legislazione simbolica. La legislazione penale è diventata un rito di contrizione della politica, scivolata da tempo lungo un piano inclinato di provvedimenti adottati per assecondare la piazza, e di altri ritirati per non innervosirla, e viene davvero da chiedersi se non sia meglio astenersi a questo punto dal legiferare, piuttosto che inseguire le divinità popolari – casta, sicurezza, costi della politica – con leggi che in nome del consenso sacrificano lo stato di diritto. Lo stillicidio di concessioni a una legislazione autoritaria e populista è ogni volta un piccolo passo indietro sul piano delle garanzie, e non è detto che riusciremo a recuperare.
Pensare che la politica non riesca a rivendicare i principi fondamentali dello stato di diritto è deprimente, perché dovrebbe essere il tessuto connettivo su cui si costruisce la propria iniziativa. Ma l’incapacità di rivendicare un primato, la paura dei populismi – che spesso spinge ad arginarli con il populismo stesso – restituiscono l’impressione di una politica in balìa dei venti di piazza. Lo scivolamento su questo piano inclinato sembra non avere fine: la prima risposta al populismo giustizialista è incrementare la risposta sanzionatoria – aumento delle pene, introduzione di nuovi reati – ma qui siamo scesi ancora, e con la riforma che dovrà essere votata alla Camera si vuole incrementare la risposta cautelare, anticipando la risposta sanzionatoria al semplice sospettato di un reato contro la pubblica amministrazione. Liberiamoci dall’illusione che l’aumento delle pene e la riduzione delle garanzie possano costruire un sistema sociale giusto e rispettoso delle leggi, e riaffermiamo il principio – adesso impopolare – per cui la legalità non è solo la sua declinazione autoritaria, il rispetto delle leggi e dei precetti, ma anche e soprattutto il rispetto dei diritti e delle garanzie. Fermiamo questa riforma.