Una settimana fa Marco Beccaria enunciava su queste pagine il principio di Peterson, o dell’inerzia applicata al basket. La verifica sperimentale del principio è giunta nella notte tra martedì e mercoledì, quando i Miami Heat, sospinti dall’inerzia, hanno vinto la gara decisiva delle finali Nba in casa dei Dallas Mavericks.
Ora le luci dei riflettori si concentrano sui ragazzi copertina di Miami, il giovane fenomeno Dwyane Wade e il colossale cartone animato fattosi uomo Shaquille O’Neal, ma noi vogliamo dare il giusto tributo a un altro giocatore, uno che viene della panchina, anche se non proprio un esponente di quella che nel calcio si usa chiamare classe operaia.
Il nostro unsung hero si chiama Alonzo Mourning, classe 1970, professione centro. Fare il centro nei Miami Heat significa fare il vice-Shaq, ovvero l’ombra della più possente e intimidatoria presenza sotto i tabelloni che si veda da anni. Mourning fece il suo esordio nell’Nba nel 1993, seconda scelta assoluta – proprio dietro a Shaquille O’Neal – e si impose subito come uno dei giocatori più forti e completi nel ruolo, venendo votato come miglior centro esordiente. Il suo anno migliore è stato il ’99, nel quale Mourning è stato votato come miglior difensore e miglior centro della lega. L’anno successivo, arrivava anche l’oro olimpico a Sydney con la squadra americana. Tenuto conto del curriculum, i suoi otto punti, sei rimbalzi e cinque stoppate nella gara decisiva del campionato potrebbero essere visti con qualche sufficienza. Si tratta un ex campione ormai sul viale del tramonto, ma ancora in grado di offrire un po’ di “minuti qualità”. Ma abbiamo tralasciato un dettaglio. Alonzo Mourning ha subito tre anni fa un trapianto di rene. Un trapianto dopo il quale la principale occupazione di Mourning comporta lo sgomitare sotto i tabelloni, spalla a spalla con gente alta due metri e quindici e pesante centrotrenta chili. Un trapianto dopo il quale, a trentasei anni, Alonzo “Zo” Mourning ha concluso la regular season sesto assoluto nella classifica delle stoppate (terzo nelle stoppate per partita), partendo dalla panchina e giocando venti minuti per gara, poco più della metà dei titolari. Non stupisce che i tifosi di Miami vadano in visibilio per lui e gli abbiano affibbiato il soprannome, decisamente appropriato, di Ultimate warrior. Non solo c’è vita dopo il trapianto, c’è anche vittoria.
Se vi state chiedendo se ci siano altri atleti dotati del medesimo coraggio o della medesima incoscienza, la risposta è a un emisfero di distanza da Miami. Ad Auckland, in Nuova Zelanda, il rugbista Jonah Lomu, già fenomeno mondiale negli anni Novanta, anche lui con un rene trapiantato dal 2004, si sta allenando per il prossimo campionato nazionale, che partirà a fine luglio. Lomu è tornato al rugby giocato giusto un anno fa, in un match esibizione nel quale ha segnato una meta e si è fratturato una spalla, quando si dice rientrare nel vivo del gioco. In seguito ha disputato una stagione in Galles, a Cardiff, dove si è nuovamente infortunato, questa volta alla caviglia, e adesso sta cercando di ritrovare la forma per il campionato neozelandese che affronterà col North Harbour. L’obiettivo di Lomu è molto ambizioso: un posto tra gli All Blacks che disputeranno la prossima Coppa del mondo. Ha poco più di un anno per realizzarlo, ma può essere ottimista. Di spalle e caviglie rotte sono piene le carriere di moltissimi rugbisti. E poi c’è quella storia di cui hanno parlato i giornali, quel Mourning, in America. Se c’è riuscito lui.