Come nel primo film del “Decalogo” di Kieslowski, dove il padre, docente universitario, calcola con il computer fin dove il figlio può spingersi a pattinare sul lago, il sound dei Tool è un complesso esercizio sul ghiaccio; come nel film, il momento in cui la lastra cede, frantumando la fragile chimera della perfetta previsione matematica, è un evento al tempo stesso imprevisto e prevedibile. Per il cattolico regista polacco quel momento rappresenta il castigo per la malriposta fede nel dio sbagliato (la scienza come un assoluto); per la band americana, non estranea alle tematiche religiose, rappresenta invece il punto di arrivo della tensione accumulata e costruita con pazienza attraverso lunghi incisi strumentali o la drammatica resa vocale del frontman Maynard James Keenan. Il punto di rottura oltre il quale, sopravvivendo alle acque gelate di un crescendo sonoro più simile a magma, si ritorna alla tensione iniziale.
Difficile definire il suono di Keenan e dei suoi sodali (Adam Jones alla chitarra, Danny Carey alla batteria e Paul D’Amour al basso; quest’ultimo rimpiazzato dopo “Undertow” da Justin Chancellor). I riferimenti consueti a Led Zeppelin, Black Sabbath, Doors e King Crimson; alla “alternative nation” post-grunge e post-Nirvana; a una fusione tra grindcore, death metal e trash, rappresentano evoluti esercizi di definizione, esercizi – di nuovo – sopra una lastra sottile di ghiaccio.
Dall’ep “Opiate” (’92), già padroni d’uno stile riconoscibile e particolare, i Tool hanno seguito la strada della frammentarietà dilatata, dell’improvvisazione studiata, dello straniamento raggiunto con il consueto: la costruzione dei brani segue i canoni metal (lento-veloce, dolce-aggressivo, ecc.), logorandoli con la voluta ricerca dell’asimmetria: l’interesse per l’occultismo di Carey, la passione per la scultura (ed il lavoro come tecnico degli effetti speciali con Stan Winston) di Jones e l’obliqua, criptica espressività artistica di Keenan (vedere l’autoironica biografia in www.toolband.com) trovano sfogo e soluzione in un sound claustrofobico, minaccioso, sadicamente teso all’esasperazione. Qualcosa di più inquietante della canonica teenage angst e senza catartici approdi (o abissi) demoniaci. Frattali anche nella collocazione temporale, proseguono il discorso con “Undertow” (’93), primo cd, e con lo splendido e lacerante “Aenima” (’96), nel quale s’inseriscono anche elementi industrial e noise. “Lateralus” (’01), pur ottimo, risulta meno “caldo” del precedente; il gruppo innesta qui richiami più estesi al progressive-rock, dando la sensazione di un work in progress.
Sensazione che il nuovo “10.000 Days” svela e supera, mostrando una band maturata al punto da potersi permettere di raggelare la materia e dilatarla, facendo virtù di ciò che buona parte della critica le rinfaccia come difetto: la prolissità delle composizioni e l’utilizzo disomogeneo dei materiali. Curiosamente simili ai Pink Floyd – dai quali distano anni luce in musica – nell’utilizzo delle voci, dei rumori e degli effetti (curioso in Aenima il sottofondo di ingiurie in italiano), realizzano un album che non li smentisce in potenza e labirintismo: soltanto, il nuovo corso li indirizza verso una maggiore rarefazione atmosferica. La brutalità è più contenuta, la minaccia meno latente, la riflessione più estesa; una cosmica espansione in forma di cupa, entropica psichedelia metallica. Spiccano “Vicarious”, “Rosetta Stoned” e la suite in due parti “Wings For Marie” – “10.000 Days”, dove i giorni a cui si fa riferimento riguardano la lunga malattia della madre di Keenan, di recente scomparsa: un’autoanalisi in pubblico, sincera e dolente, a tratti anche ingenua, che completa un lavoro già ricco di emozioni, riferimenti e simboli.