In politica ciò che è inutile spesso è anche dannoso. L’inutilità di avere due partiti riformisti come Ds e Margherita è ben rappresentata dallo spettacolo di questi giorni: mentre il ministro Bersani, appoggiato con forza da entrambi i partiti, con i provvedimenti sulle liberalizzazioni dà finalmente il segno del cambiamento nell’Italia delle corporazioni, le forze della sinistra radicale si dilaniano sulle parole, in una battaglia grottesca sui rispettivi gradi di coerenza pacifista dinanzi al prossimo voto sulla missione in Afghanistan. Dall’economia alla politica internazionale, non si vede quali diversi blocchi sociali, quali diverse necessità storiche sarebbero rappresentate da Ds e Margherita. Allo stesso modo, riesce difficile immaginare quali profonde differenze di valori, idee e opzioni politiche concrete giustifichino l’esistenza di tanti diversi partiti della cosiddetta sinistra radicale. Il danno, in entrambi i casi, è evidente. Come mostra sin troppo chiaramente la triste competizione tra Rifondazione, Verdi e Pdci per il titolo di campione del pacifismo.
L’esistenza di più soggetti politici che insistono sulla stessa constituency innesca inevitabilmente una spirale perversa e ingovernabile, in cui per giustificare la propria esistenza ceti politici dalla sempre più ridotta base sociale devono contendersi i consensi attraverso la costante radicalizzazione delle proprie posizioni. I tanti insormontabili problemi politici che secondo alcuni impedirebbero la costruzione del partito democratico non sono altro che il frutto di una simile dinamica. Non è infatti la diversa concezione della laicità o della modernizzazione economica a impedire la fusione tra Ds e Margherita. Non è certo il recente apparentamento della Margherita alla minuscola famiglia dei democratici europei a costituire un invalicabile ostacolo all’unione con i Ds, appartenenti al Partito del socialismo europeo. Al contrario: è il permanere di una divisione artificiale e ingiustificata a spingere i partiti, segnatamente la Margherita rutelliana degli ultimi anni, a ricercare ogni occasione utile per distinguersi. Ma su tali questioni non si vede cosa impedisca che sia il nuovo partito a decidere, in un regolare congresso, come ogni partito democratico che si rispetti.
Questo è il vero grande processo di liberalizzazione che i riformisti del centrosinistra devono trovare la forza di avviare: la lotta agli albi professionali della politica, ai partiti da banco, alle tariffe minime concordate tra gruppi dirigenti che in un mercato aperto non sopravvivrebbero un giorno e che solo grazie al proprio potere di blocco e di ricatto – marciando separati per colpire uniti – riescono a ritagliarsi la propria nicchia di ingiustificati privilegi.
Questa è la reale necessità storica dell’Italia. A questo serve dunque il partito democratico. Quanto a quell’acuto editorialista che ha recentemente dato il nome a un’elegante collezione di agendine, quel professor Giavazzi uso a scagliarsi contro il potere asfissiante delle lobby di farmacisti e tassisti dalle colonne del primo quotidiano nazionale, proprietà del principale blocco banco-industriale del paese, davvero non stupisce che nel salutare le riforme del pacchetto Bersani lamenti le attuali difficoltà della Rosa nel Pugno, convinto che senza quel partito del 2 per cento e la sua campagna per l’Agenda Giavazzi mai si sarebbe giunti a un simile risultato.
E’ evidente che il pacchetto Bersani è solo un primo passo. La battaglia per liberare l’Italia dalla rete delle lobby, cuginanze e fratellanze siamesi che la paralizzano sarà assai più dura, quando si andranno a toccare interessi assai più corposi e assai meglio difesi di quelli colpiti oggi (che pure opporranno una fierissima resistenza). Ed è altrettanto evidente che il partito democratico serve anche e forse soprattutto a questo.