Sta accadendo qualcosa di grosso nel pensiero occidentale: una rivoluzione epocale nella concezione del tempo. Sto parlando, naturalmente, di quel che avviene nella giustizia sportiva. Quella che sta mettendo a processo Moggi & soci. Quella che ha escluso Ivan Basso dal Tour de France. Il metodo della giustizia sportiva, infatti, dischiude una precomprensione della temporalità sulla quale nessuno, a quanto ne so, ha finora riflettuto abbastanza.
Più rapida della sorella ordinaria e apparentemente meno repressiva (al punto che Borrelli s’è lamentato di non riuscire a ottenere confessioni dagli indagati che, diversamente dai bei tempi di Tangentopoli, non ha potuto mettere ai ceppi), la giustizia sportiva possiede una curiosa relazione bidirezionale con il sospetto: lo usa e lo genera. Lo usa, in quanto lavora su concetti impalpabili quali la volontà stessa, da parte dell’indagato, di commettere l’illecito, reputata già di per sé ragione di deferimento e condanna; lo genera perché piomba, con leggerezza da elefante, in mezzo all’opinione pubblica, al paese reale, toccando temi sui quali ciascuno ritiene di avere competenza sufficiente a produrre un’opinione decisiva, e sui quali a ciascuno importa parecchio esprimere un’opinione.
Il punto è che il sospetto lavora sulla percezione del tempo e la distorce irrimediabilmente. La nostra concezione dello scorrere dei giorni, dei mesi, degli anni ne esce travolta, sconvolta, riorientata. La giustizia sportiva mette a tema niente meno che uno dei più antichi e grandi sogni (incubi) dell’umanità e degli scrittori di fantascienza: il viaggio nel tempo, lo scardinamento della monodirezionalità cronologica.
La questione è di grande rilievo: l’idea che il tempo scorra inarrestabilmente da presente a presente, divenendo passato e fagocitando via via il futuro è stata fatta oggetto delle riflessioni di filosofi e poeti. Aristotele, Agostino, Kierkegaard, Heidegger. Si pensi alle implicazioni etiche: la scelta; il pentimento; l’avere-da-essere; l’esistenza che non ha essenza; la volontà; l’autodeterminazione; la libertà. È il cuore dell’Occidente, del suo pensiero, della sua relazione all’essere e al bene. È Dostoevskij. È Leopardi. È Shakespeare. È Dante. È Omero.
È anche l’impossibilità di un desiderio umanissimo (e tanto più umano in quanto irrealizzabile): cancellare l’errore, il peccato, l’accadimento infausto. È lo scoglio contro cui si abbatte la rivolta contro il dolore innocente, che si vorrebbe poter cancellare, ma che risulta incancellabile perché, ormai, irraggiungibile, sprofondato com’è nel perduto passato. È ciò che c’è di orribile nella morte di una persona cara, nel delitto del torturatore, nella Shoa. È ciò contro cui Nietzsche ha provato a lottare con la sua idea dell’eterno ritorno, per rendere possibile la quale ci vuole, com’è noto, un Übermensch.
Che cosa accade ora? Aspettavamo l’avvento dell’Übermensch, ci siamo trovati tra i piedi Borrelli. Ma l’effetto sembra essere lo stesso. Il passato non è più, nella pretesa della giustizia sportiva, qualcosa di fuggito, un tempo andato che non ritornerà. È ciò che risulta sempre sub judice, mai definitivamente passato, mai completamente “stato”. È ciò che può essere, sempre e per sempre, rivissuto, riformulato, rideciso, riattinto, reinterpretato. Alla richiesta di riattribuzione di quali campionati si fermerà la volontà nichilista e interista di Moratti, vero – e credo inconsapevole – discepolo del filosofo di Röcken? Quante serate trascorse da bimbi juventini in giro in auto per Torino con la trombetta a fare potipoti verranno loro tolte, ignare creature ancora non svezzate per le quali ieri è ieri e domani è domani? Può la storia d’Italia (il calcio è storia, si sa) essere riscritta alla radice, manco ci trovassimo nell’Oceania di 1984? Fin dove si potrà spingere la riscrittura del passato, come se nulla fosse (come se nulla fosse stato)? E il futuro? Sarà ancora lo schiudersi delle infinite possibilità cantato da Kierkegaard sulla musica di Mozart, o diventerà, nelle mani della giustizia sportiva, il regno della condanna preventiva, del futuro-già-passato (in giudicato)? Chiedetelo a Ivan Basso, già sommariamente punito con l’esclusione da una corsa che avrebbe potuto vincere per un illecito forse commesso, ma per il quale non è stato condannato e nemmeno imputato né informato con le stesse informazioni che chi lo ha escluso ha reputato sufficienti per escluderlo. Non risultasse scontato, citeremmo Kafka. Se siamo tutti colpevoli, il tempo non esiste più. E se il tempo non esiste più, siamo tutti colpevoli.
Insomma: il tempo della giustizia sportiva è un caotico frullatore, nel quale è impossibile tenersi fermi a una qualche certezza. Chi ha vinto l’ultimo campionato? E il penultimo? E quello di dieci anni fa? E per che cosa ho esultato, per che cosa ho temuto e imprecato io tifoso? E l’amarezza per quella sconfitta inopinata, l’entusiasmo per quella rimonta esaltante, il brivido per quella situazione vissuta sul filo della tensione, potrò mai considerarli come attimi definitivamente rubricati, e perciò acquisiti come esperienze di vita dalle quali imparare, alle quali tornare con serena o inquieta memoria, passi di un cammino che, alla fin fine, sarebbe anche la mia (la nostra) esistenza?
E le storie? Che cosa ne resta della possibilità di raccontare storie se non abbiamo più il tempo, la trama sulla quale le storie vengono ordite? E che cosa resta dello sport, se non è più possibile trarne storie da raccontare?>