Il calcio è un gioco: qual è l’essenza del gioco? Figuriamoci, l’Italia ha appena vinto i mondiali, le piazze sono piene di patrioti in festa, i giornalisti sportivi gareggiano con Omero nel celebrare le gesta degli eroi: non si vede proprio la necessità di una riflessione sull’essenza del gioco. E allora rinuncio. E ricomincio.
Il calcio è un gioco straordinario. Non conta che siano, come si dice, venti uomini divisi in due squadre che corrono intorno a una palla per buttarla tra pali dove altri due uomini, uno per squadra, proveranno a impedire che vi entri, i venti con i piedi e con la testa (a volte, ma è più raro, con la coscia o con il petto), i due con i piedi con la testa con tutto, ma soprattutto con le mani. Conta invece l’eleganza di un gesto atletico, la tensione agonistica, lo spirito di squadra, la difficoltà di esecuzione di un calcio, la perizia balistica di una punizione… non va. Neanche così questo articolo funziona.
Bisogna per forza parlare della determinazione feroce di Gattuso, dei polmoni di Zambrotta, della classe di Francesco Totti, del fiuto del gol di Toni, delle geometrie di Pirlo. Bisogna celebrare in Buffon il più forte portiere del mondo, in Cannavaro il miglior giocatore del Mondiale, in Marcello Lippi il più preparato dei commissari tecnici. Ci vogliono i nomi propri, insomma, le casacche, e un buon gruzzolo di aggettivi. E ci vogliono le storie: quella un po’ triste di Pippo Inzaghi, rimasto quasi sempre in panchina, quella a lieto fine di Fabio Grosso, che il mondo non conosceva e che adesso conosce per averci portato in semifinale, poi in finale, poi con l’ultimo rigore in cima al mondo.
È di tutta evidenza, tuttavia, che in questo modo il gioco del calcio pone con forza il problema filosofico dell’individuazione, e così io ci provo di nuovo.
Perché ci vogliono i nomi propri? Che il gioco del calcio non sia semplicemente un gioco, lo dimostra proprio il fatto che esso ruota intorno ai nomi propri. Gadamer, uno dei padri dell’ermeneutica contemporanea, ha spiegato che, nel gioco, prima ancora di giocare il giocatore è giocato. Questo significa: il vero soggetto del gioco non sono i giocatori, ma il gioco stesso. I giocatori si prestano: come diceva Bruno Pizzul, interpretano la partita. Ma poi passano, mentre il gioco resta. Anche se non sembra che sia proprio così: per la mia generazione i campioni sono e restano i Cabrini e i Tardelli, i Rossi e i Conti, per quella precedente i Boninsegna, i Riva e i Mazzola, e per quella seguente, che per la prima volta esulta stanotte, i Materazzi, i Camoranesi, i Perrotta. Salto gioisco e urlo anch’io, com’è ovvio, ma suona quasi un affronto per il ragazzino che ero nell’82 pensare che questi nomi valgano quelli del Santiago Bernabeu. Rossi di goal ne fece sei, e Gentile non fece toccare palla a un certo Zico, non so se mi spiego, e Bruno Conti saltava l’uomo come nessuno in questa nazionale. (E neanche Civoli vale Martellini, questo va da sé). E allora?
Bisogna capire bene la natura rituale del gioco, e come tutti questi nomi siano degli universali fantastici, per dirla con Gianbattista Vico (napoletano come Cannavaro, e come lui capitano della nazionale italiana. Dei filosofi). L’universale fantastico non è un nome di fantasia, non è un concetto astratto, ma non è nemmeno solo un individuo reale. Altrimenti non si capirebbe come qualcuno possa sognare di essere il nuovo Rossi, o il nuovo Zoff: non come Rossi o come Zoff, ma proprio Rossi, e proprio Zoff. E non si capirebbe neppure perché chi poi lo diventi non sia affatto Rossi o Zoff, ma Toni o Buffon. Si può sognare di essere il campione, ma il campione è sempre, ogni volta, uno solo. E ci sono molti modi di essere uno, ma solo il campione riesce a essere, proprio in quanto è uno, il sogno dei molti che vorrebbero essere lui. Il campione disegna dunque una soglia: di qua ci sono i molti, di là c’è lui. (Mettere un ragionevole “come” tra i molti e lui, pretendere di parlare fuori di metafora, è come illudersi che anche la più modesta delle iperboli equivalga a un paragone abbreviato). Ora, ogni soglia ha un valore iniziatico. Attende, misteriosa, di essere varcata. Varcarla significa però cancellarla: consegnare il campione alla memoria, e noi stessi alla vita, che è sempre ciò che resta quando il sogno diventa memoria.
Rimane da riflettere brevemente su una cosa un po’ strana. Posto pure che grazie alla natura rituale del gioco e all’esemplarità del campione ciascuno si metta sulla via di essere se stesso, perché il tifo? A vederli, i tifosi che si dipingono il viso coi colori della bandiera nazionale, ben lungi dal farsi valere come individui, sembrano regredire verso uno stadio preindividuale. Perché c’è bisogno allora, per la costituzione di un’individualità, del bagno di folla, delle urla e dei clacson? Che ci sia un tale bisogno è abbastanza indiscutibile: ancora si deve trovare il popolo che non conosca simili manifestazioni collettive. Sarò brutale e ripeterò la domanda così: perché, per divenire uomini, bisogna imitare gli animali? Una sola risposta è possibile, ed è nelle cose: l’uomo è l’imitazione dell’animale. Non un animale, certo, ma sì la sua imitazione (e perciò, e solo perciò, non più animale). Il che significa che la soglia oltre la quale c’è l’uomo non può mai essere varcata una volta per tutte, senza cancellare con essa l’uomo stesso.
Insomma: Nietzsche tendeva una corda fra la scimmia e il superuomo. Noi, più modestamente, la tendiamo tra il tifoso e il campione: senza mai poter essere quest’ultimo, dovendo sempre un po’ essere quell’altro, ci sediamo dinanzi al televisore e guardiamo la partita. Vinciamo ai rigori, e va bene così.