Leggendo della levata di scudi di tutte le tv (Rai compresa!) contro Franceschini che le vuol costringere a comprare meno a beneficio del made in Italy, abbiamo pensato ai tanti costernati articoli sui nostri giovani che per realizzarsi professionalmente puntano all’estero. Tra questi anche i giovani che aspirano a crescere nello show business. «Ma come – direte voi – abbiamo uno strabocchevole numero di canali tv e di testate giornalistiche, un pluralismo che tutto il mondo ci invidia, e cionondimeno i lavoratori italiani dell’audiovisivo hanno le pezze al culo?». Il punto è proprio qui: che noi scambiamo per invidia degli altri il loro leccarsi i baffi perché la italica sovrabbondanza distributiva spalanca il paese alla valanga del prodotto estero. Valanga inarrestabile anche perché quei format e quei prodotti ci vengono rivenduti a una piccola frazione di quanto a Londra, Parigi, Hollywood o Tel Aviv è costato concepirli e produrli.
Così da decenni capita che l’enorme quantità di format e programmi da comprare prosciuga le casse delle tv, cui resta ben poco per produrre in proprio e in loco. E quando accade, lo fanno con i fichi secchi di micro budget inadatti ai livelli di “qualità” richiesti dal mercato internazionale. Di conseguenza i prodotti fatti in Italia restano nei circuiti locali e all’estero, se ci si affacciano sotto la spinta di sovvenzioni varie, sono vendicchiati più che venduti. Le eccezioni, come Gomorra, confermano la regola, anche se dimostrano che volendo la si potrebbe cambiare. Imponendone di nuove per legge? Anche, come Franceschini sembra stia provando a fare.
Tuttavia le regole non sono l’erba voglio. Non basta volere, è necessarie anche creare le condizioni strutturali adatte alle regole nuove. E qui il passaggio non è indolore perché potare l’eccesso di canali e testate che oggi vampirizzano il sistema Italia è impresa di tremenda complessità: non tecnica, ma politica. Aggrappati al vecchio sistema troviamo infatti il Duopolio con le sue logiche di inflazione dell’offerta, il giornalismo Rai trincerato nella organizzazione del 1976 (sic), la pletora delle tv locali che contribuiscono per la loro parte alla bassa qualità industriale dell’intero settore.
Ecco perché ci piacerebbe immaginare che il ministro della Cultura, mentre da un lato fronteggia le tv che gli dicono «così non ce la facciamo», dall’altro lato dialogasse con il ministero dello Sviluppo economico che deve negoziare con Rai l’assetto e le funzioni del servizio pubblico. Se c’è una possibilità di cambiare le cose nel senso voluto da Franceschini questa dipende da q2uanto di razionalizzazione verrà fuori dal contratto di servizio in elaborazione. Perché se la Rai cominciasse a cambiare, il resto, a partire da Mediaset, più facilmente seguirebbe. In caso contrario, statene certi, continueremo a comprare quel che si produce negli stessi altrove dove i nostri ragazzi creativi dovranno recarsi per lavorare.