Dopo Piero Fassino e tanti altri, anche Massimo D’Alema ha dichiarato in un’intervista all’Unità che per andare avanti nella costruzione del Partito democratico, quel che ci vuole è una bella “Carta dei valori”. Per chi come noi crede all’autonomia della politica – e proprio in nome dell’autonomia della politica crede nella necessità storica del Partito democratico – un simile cedimento alle ultime mode intellettuali è motivo di sconforto.
Non ci sarebbe nemmeno bisogno di scomodare Machiavelli, se non per segnalare la contraddizione dei tanti sostenitori da sinistra dell’importanza dei valori in politica – valori come laicità e fiducia nel progresso, ben inteso – da loro agitati in modo perfettamente speculare alle parole d’ordine della retorica teo-con.
L’idea che l’identità di un partito debba essere fissata in un set di valori da sottoporre agli aderenti come suo programma fondamentale è non solo culturalmente regressiva, ma utopistica. Applicata seriamente, non porterebbe certo all’affratellamento degli eredi delle diverse tradizioni politiche di Ds e Margherita, ma allo spappolamento dei partiti esistenti. Non ci viene in mente in Italia un solo partito che sarebbe capace di resistere a una simile prova. Per restare ai Ds, a essere onesti, non ci viene in mente nemmeno una sola corrente – delle tante in cui vengono abitualmente suddivisi – in grado di reggere tale processo. Dovessimo prevederne l’esito sulla base dei valori dichiarati dai singoli dirigenti, al termine di una discussione sui principi non negoziabili interna all’apparato, scommetteremmo sulla nascita di almeno otto diversi nuovi partiti per scissioni successive. Lo stesso discorso vale naturalmente, e non a caso, per tutti i partiti moderni. O almeno varrebbe, si capisce, se la definizione della Carta dei valori fosse fatta seriamente.
Meno seriamente e più pragmaticamente, si può immaginare quale sia la limitata portata dell’operazione: un’interminabile e defatigante seduta di autocoscienza di partito. Per tenere dentro tutto e il contrario di tutto, compresi i contrari alla stessa nascita del nuovo partito di cui si vorrebbero definire i valori. Con il rischio di un esito sommamente paradossale: i contrari sin dall’inizio che determinano in grande misura, con il ricatto della scissione, la definizione della solenne Carta dei valori di un nuovo partito che il giorno dopo potrebbero comunque abbandonare. Lasciando così i riformisti soli con un pezzo di carta che a loro nemmeno somiglierebbe. Come un marito costretto a farsi carico del figlio nato dall’adulterio della moglie, che veda la moglie fuggire con l’amante lasciando a lui l’onere della prole.
La definizione di una carta dei valori ci pare dunque sciagurata tanto sul piano politico-culturale quanto sul piano tattico. L’idea stessa di definire in questo modo un partito è di per sé un regresso verso una concezione della politica pedagogica, settaria e integralista, che sta alla parola d’ordine della confluenza tra le diverse tradizioni del riformismo italiano come Amadeo Bordiga e Luigi Gedda stanno agli attuali gruppi dirigenti di Ds e Margherita. Un partito moderno è un’associazione di persone libere, ognuna con i propri liberi convincimenti morali, che decidono di unirsi per assolvere una funzione nazionale, o quanto meno più larga di quella che potrebbero assolvere chiusi nelle loro ristrette cerchie confessionali, ideologiche o corporative.
Quanto al piano meramente tattico, come non vedere che è proprio quello dei valori il terreno più propizio alle scorrerie di tutti coloro che il Partito democratico non lo vogliono? La necessità storica dell’unità tra Ds e Margherita sta proprio nel fatto, ampiamente dimostrato dall’azione di governo di questi mesi, che non sussiste più alcuna ragione politica che giustifichi la divisione in due partiti delle forze riformiste del centrosinistra, cui all’interno della coalizione si contrappongono solo ed esclusivamente le forze della sinistra radicale. Dall’economia alla politica estera, non si percepiscono altre distinzioni degne di nota. Ed è proprio per questo, per giustificare il perdurare di gruppi dirigenti e assetti non più fondati in una reale e distinta funzione nazionale, che pezzi della dirigenza dei due partiti tentano di esasperare le divisioni sul terreno dei valori. Non ci sarà da stupirsi se oggi, tanto nel Consiglio nazionale ds quanto nell’Assemblea federale della Margherita, convocati per dare impulso al processo unitario, sarà sui valori che si apriranno le crepe più evidenti.
Se dunque si sente proprio il bisogno di un simile passaggio, quale quello che verosimilmente sarà approvato – con mille diversi retropensieri – dalle direzioni di Ds e Margherita, che almeno lo si chiami diversamente. Lo si chiami manifesto politico del Partito democratico e se ne limiti l’oggetto alle ragioni per cui i fondatori hanno deciso di partecipare alla sua costruzione. Certo, in tal modo – ci si potrebbe obiettare – sarebbe più difficile coinvolgere nel processo chi al Partito democratico oggi si dice contrario. Giusta osservazione.
Francesco Cundari