I tornanti prima della fine della legislatura iniziano a essere pochi e la discesa che porta al traguardo sembra sempre più ripida. Per questo, di legge sulla cittadinanza e ius soli ormai da mesi si discute a singhiozzi: o nell’imminenza di un pertugio nel fittissimo calendario parlamentare in cui inserire il provvedimento, o sull’onda di strascichi polemici inveleniti dalle vicine scadenze elettorali. Così facendo, però, si lascia per strada una domanda di non poco conto, che gioverebbe pure a raddrizzare la competizione su un terreno meno isterico. Vale, infatti, per lo stato attuale della questione, ancora incerto, ma c’è da immaginare che, anche qualora la legge venisse approvata in extremis con un voto che compatti la maggioranza, serviranno poi binari culturali più solidi e condivisi per togliere al tema la spinta del fanatismo ideologico.
La domanda è questa: che senso vogliamo dare noi italiani alla cittadinanza? Più ancora delle radici filosofiche che fanno da sfondo, più ancora delle analisi sul modello di cittadinanza adoperabile in epoca di globalizzazione, più di tutto questo mi sembra che pesi il destinatario di questa domanda e quali risorse simboliche egli voglia investire nel sentirsi cittadino. Sono gli italiani che devono sapere che cosa li rende cittadini partecipi di una stessa condizione; quali diritti, quali doveri, quale loro reciproco equilibrio li coinvolga effettivamente ogni giorno; insomma di quale storia si sentono parte integrante. Chiamiamola pure una questione di spirito pubblico, ma è difficile che la riconosciuta cittadinanza attecchisca senza uno spazio di realtà e di sentimenti capace di integrare chi è arrivato da lontano e in condizioni di emarginazione.
Ho l’impressione però che la risposta non sia affatto scontata. Non lo è per coloro che fanno dello ius sanguinis la gabbia dei nostri confini nazionali, trincerandosi dietro un sovranismo che incrementa isolamento, conflitti ed emarginazione. Ma non lo è neppure agli occhi di chi, all’opposto, rinuncerebbe volentieri del tutto allo statuto giuridico della cittadinanza. Tra questi, in prima fila, c’è sicuramente Giorgio Agamben, che pochi giorni fa ha diffuso una preziosa spiegazione del perché il suo nome non compaia tra i firmatari dell’appello per l’approvazione della legge in discussione. In buona sostanza, secondo il filosofo, a poco vale la storia che l’istituto della cittadinanza ha percorso nei secoli, come a poco valgono le possibili fattispecie normative per l’acquisto della condizione di cittadino; che si parli di ius sanguinis, soli o culturae poco cambia, dato che sempre con un regime di soggezione al diritto abbiamo a che fare. Non importa, cioè, con quali obiettivi la forza del diritto sia usata, per espandere una condizione di vita, individuale o sociale, o per restringerla, per concedere diritti politici o per levarli. Non importa, cioè, che cosa da un principio come quello di cittadinanza, sorto insieme agli Stati moderni, sia conseguito nella realtà; conta invece soltanto la voce imperativa, e perciò violenta, degli ordinamenti politici e dei loro istituti giuridici.
La posizione di Agamben supera senza dubbio le ragioni di una mancata firma. Ma c’è da chiedersi se un atteggiamento del genere non ispiri un altro isterismo ideologico, una logica dell’emergenza questa volta ben diffusa a sinistra, per cui ogni appello alla legge assume il sapore della repressione e dello stato di emergenza. Quando però si tratta di politica, del suo recinto democratico costituzionale, e ancor più delle attuali politiche di integrazione, anche a sinistra tutto questo diventa una semplice scorciatoia per nascondere una mancanza profonda. La mancanza di una cultura capace di sostenere politiche equilibrate tra partecipazione e riconoscimento, che richiederà anche tempi lunghi per dispiegare i suoi effetti, ma temo non abbia grandi alternative.