I veri errori del caso Bankitalia

Intorno agli aspetti puramente elettorali e di posizionamento politico del caso Bankitalia si possono fare varie considerazioni, che tralascio, perché molto opinabili e poco interessanti. Se invece stiamo al merito della questione, credo che il Partito democratico abbia ragione per almeno due motivi. Il primo è che non possiamo fare finta che la lunga catena di crisi bancarie italiane non ci sia stata. Nascondersi dietro la lettura di comodo data dalle associazioni di categoria e dalla stampa specializzata («le crisi bancarie sono solo colpa della crisi economica») si scontra con un’evidenza che dice ben altro. A differenza dei grillini io non credo che la Banca d’Italia abbia tollerato certi comportamenti per connivenza con i controllati. Al contrario, io penso che lo abbia fatto soprattutto per un (maldestro) tentativo di difesa dell’interesse nazionale di fronte a un contesto internazionale ed europeo in rapido mutamento, che ha aperto sfide enormi per il sistema bancario del nostro paese.

Le nuove regole europee, sia in campo prudenziale sia nel campo della risoluzione, sono molto severe e il sistema bancario italiano era – ed è – ancora in piena transizione, dunque non in grado di applicarle seriamente, bloccato anche da una difesa corporativa di assetti consolidati che forse non ha eguali negli altri settori dell’economia nazionale. La Banca d’Italia aveva ripetutamente denunciato questo problema quando erano ancora aperti i negoziati sui tavoli europei, chiedendo che si prevedesse almeno un adeguato phase-in (adattamento graduale) delle nuove normative, ma i governi dell’epoca (Monti-Letta) erano debolissimi e arrendevoli come rare volte si è visto nella storia nazionale. Di fronte alla totale latitanza della politica, alla Banca d’Italia non è restata altra arma che quella di applicare un informale phase-in domestico e chiudere un occhio su alcuni comportamenti per evitare che le nostre banche diventassero – ancora più che nel recente passato – terra di facile conquista della protervia dirigista di qualche altro paese europeo. Il prolungarsi della crisi economica ben oltre quanto previsto inizialmente ha fatto però esplodere la bomba. E questo ha colpito inevitabilmente anche la credibilità interna e internazionale della vigilanza bancaria, ben più di quanto abbia fatto la mozione parlamentare del Pd.

In secondo luogo credo che la mozione del Pd abbia aperto – più o meno deliberatamente – una discussione sul ruolo della Banca d’Italia nel nostro paese. Nel corso della sua secolare storia, l’istituto di via Nazionale si è conquistato sul campo un prestigio e un’autonomia che nessuna mozione parlamentare potrà mettere in discussione. Ma nell’ultimo trentennio la Banca d’Italia, come è accaduto anche ad altre istituzioni, si è trovata a giocare un ruolo che va ben oltre il suo storico compito. Ha agito da supplente della politica in molti campi che non le erano propri: ha disegnato, organizzato e gestito la complessa partita delle ristrutturazioni bancarie, quasi sempre con l’avallo del grande capitalismo italiano (e quando il governatore di turno ha provato a fare qualcosa di non gradito è stato messo alla porta, senza tanti complimenti e con buona pace della lesa credibilità e dell’indipendenza della banca centrale).

Non c’è dubbio che il Pd in questi anni di governo abbia cercato – non senza difficoltà – di ridare alla politica il protagonismo che le spetta anche in campo bancario: la riforma delle banche popolari e delle banche cooperative va in questa direzione. Riprendere le leve di comando di un processo provoca inevitabilmente scossoni e ribellioni sia da parte di chi viene espropriato di questi poteri, dopo averli indebitamente esercitati per quasi un trentennio, sia da chi li subisce (molto spesso si tratta delle stesse persone). Però è un processo necessario: la storia della Seconda Repubblica ci insegna che i supplenti, più o meno autorevoli, non sono stati in grado di cambiare il paese perché godevano della legittimazione dei giornali ma non di quella degli italiani. Il Pd si candida a farlo con ancora più convinzione di quanto non gli sia riuscito negli ultimi tre anni. Basterebbe questo per considerare la discussione utile all’Italia.