Resistere, resistere, resistere. Non c’è altro da fare di fronte all’esito giuridico dell’affaire Zidane-Materazzi. Resistere, e provare a spiegare a tutti perché si resiste, e perché si debba resistere. Già, perché di fronte all’evidente ingiustizia di una sentenza sportiva che equipara un insulto detto a mezza bocca nel pieno della trance agonistica di una finale mondiale a una testata potenzialmente omicida e del tutto insensata persino sul piano minimo del mero utilitarismo (c’è bisogno di ricordare che la Francia ha perso ai rigori, e che Zidane fosse il rigorista principale della sua squadra?) le reazioni sono state le più varie, ma nessuna, mi sembra, ha colto finora la reale portata di ciò che da quell’insieme di eventi è scaturito. La sostanziale assoluzione dell’ex campione francese ha assunto varie forme: c’è la versione di gran parte dell’opinione pubblica e della stampa francese, che in nome della superiore classe di Zidane rispetto al povero Materazzi ha messo quest’ultimo alla gogna, chiedendone e ottenendone l’incriminazione inaudita per “provocazione” come mai prima era successo in casi analoghi, e che attraverso di essa ha addirittura provato a mettere in dubbio la reale validità della vittoria italiana ai rigori (“che vittoria è?” s’è sentito dire da più parti); c’è la versione più soft di chi, in special modo appartenente alla schiera del tifo femminile attratto alle cose del calcio dalla rilevanza mediatica dell’evento, in nome dell’incontestabile figaggine del giocatore transalpino tende ad assolverlo, e di nuovo a condannare il rude, bruttarello e impresentabile Materazzi; infine, c’è la versione apparentemente più ragionevole di chi, in nome del fair play, magari avrebbe visto con favore una condanna più pesante per Zidane, ma senza difendere più di tanto l’operato del difensore italiano, non nuovo a comportamenti irresponsabili e quindi condannato da sempre e per sempre a interpretare il ruolo del villain senza possibilità di redenzione.
Dietro a tutte queste versioni della medesima condiscendenza verso l’operato di Zidane e, soprattutto, dietro alla decisione giuridica della Commissione Uefa, c’è altro che la semplice volontà di non infierire su un grande giocatore giunto al passo d’addio. C’è, piuttosto e nientemeno, una visione del mondo che non mi piace per niente. C’è l’antico sogno gnostico di un mondo emendato dall’errore in nome di una purezza conosciuta da un ristretto gruppuscolo di iniziati. C’è l’apparire, in versione postmoderna, dell’idea guida di ogni ideologia assassina: il mondo così com’è non va bene, bisogna purgarlo e purificarlo, se necessario con il fuoco e lo sterminio. Secondo questa logica Zidane, emanazione del divino pleroma in parastinchi e maglietta numero dieci, è innocente a prescindere, per definizione, senza discussione e contraddittorio. Non c’è fatto reale che possa contraddire tale verità, giacché i fatti reali appartengono non alla superiore dimensione dello spirito e della bellezza, bensì a quell’accidente scomodo, ingombrante, da eliminare e negare che è la materia, l’imperfezione, la transitorietà empirica, la realtà fatta di carne e sangue. Il capitano dei Bleus non è altro, in tale visione, che una parte per il tutto: la stessa vittoria dell’Italia (ai rigori, che volgarità!) è un accidente. Ciò che è vero, ciò che rimane vero al di là di quel che è stato l’esito di quei centoventi, sudatissimi minuti e di quei dieci tiri dagli undici metri, è che la Francia era più bella, più elegante, più forte. In una parola, la vincitrice morale della partita. Si tratta della logica di ogni rivoluzione (e in Francia ne sanno qualcosa di rivoluzioni, dopotutto): la volontà di potenza può, e quindi deve, plasmare la realtà, incurante di ciò che la realtà già è per conto suo. E se la realtà sfugge alla predeterminazione dell’intenzione rivoluzionaria, non resta da fare altro che negarla, negandone la storia, ovvero la parte già accaduta. Materazzi ha segnato il gol del pareggio e il suo rigore e Zidane ha compiuto un atto sconsiderato? Lo si neghi, con una condanna esemplare del primo e una santificazione del secondo, eroe ferito e pertanto ancor più eroe, che chiede scusa in mondovisione perfino ai bambini (ma non a Materazzi).
Protestare contro la decisione Uefa di squalificare per due turni il povero Materazzi finisce quindi per essere un atto di sano realismo filosofico. È amore per quell’antica e saggia idea secondo la quale all’intelletto e alla volontà umane resta sempre da fare i conti con la realtà e con le sue strutture (e poco importa, fatto salvo questo assunto, che le strutture di cui si parla siano concepite come forme della realtà stessa o, kantianamente, come forme a priori della nostra razionalità). È, insomma, la protesta realista e tradizionalista di chi non crede (io non ci credo) che una partita di calcio possa essere decisa da altro che non sia il fatto di avere messo dentro un pallone in più degli avversari. È un atto di ecologia della mente. Poi si può discutere e dire, con tranquillità, che i tali hanno vinto ma per fortuna o per caso, e che i talaltri avrebbero meritato di vincere, o che il pareggio sarebbe stato l’esito più logico. Però poggiando i piedi sulla certezza realista che i tali hanno vinto e i talaltri hanno perso. Il resto è apocalisse gnostica. È il mondo sottosopra. È la pretesa insana di sovvertire lo spazio e il tempo. È il sabba. È l’avvento dell’orrore. È la negazione della logica. È l’irruzione del demoniaco. È nichilismo mascherato da chissà che. È l’inferno sulla terra causato dalla volontà di chi vorrebbe costruire, qui e ora, il suo paradiso. È confondere la realtà con i propri desideri. È volerla piegare ad essi senza curarsi del sangue da versare (metaforico, in questo caso, ma non sempre). È la patologica incapacità di perdere che porta alla violenza e alla sua giustificazione teorica. È il voler sempre avere l’ultima parola su tutto, persino sull’ineluttabilità delle cose che accadono.
Io, contro questa schifezza, sto con Aristotele. Con Tommaso d’Aquino. Con Kant. Con Materazzi.