Europa es el único continente que tiene un contenido, diceva Ortega y Gasset. Chissà quanti spagnoli, recandosi domenica, primi nel continente, al voto sulla Costituzione europea, avranno afferrato quel contenuto. Ma qual è poi questo contenuto? Come e dove esiste l’Europa? Prendendo qualche distanza dalla stretta attualità, non è forse inutile provare a convertire la domanda sull’identità europea in una più insolita domanda sul luogo d’Europa: vuol dire che le filosofie del tempo, che tracciano il senso più o meno univoco della storia, sono in grave affanno, e che la geopolitica riprende i suoi diritti.
Ma proprio cercando lo spazio d’Europa, ci imbattiamo in difficoltà fondamentali. Non possiamo infatti adoperare il termine come sinonimo di Occidente, o per riferirci alle democrazie industriali avanzate, o ad una parte soltanto dell’Europa – quella che per esempio è rappresentata nelle istituzioni comunitarie. Balza all’occhio una considerazione solo apparentemente ovvia, che cioè è piuttosto tardi: nel medioevo, e poi soprattutto nella modernità, Europa diviene un concetto storico-politico capace di designare un’area relativamente unitaria. La civiltà greca, che si estese dalle colonie italiche all’Asia minore, non fu una civiltà europea. L’impero romano, che comprese anche parte del continente africano e di quello asiatico, non fu una civiltà europea. Il tratto che caratterizza meglio, dal punto di vista della geografia storica, tali spazi, è dunque il Mediterraneo. La più ovvia conseguenza che se ne può trarre è che l’Europa, lungi dal continuare la grecità e la romanità, nasce, come disse Ian Patočka, sulle loro rovine, sulla frattura dello spazio percorso dalle navi greche e poi dominato da Roma.
Ma anche l’altro grande luogo d’origine della civiltà europea, Gerusalemme, si trova fuori dai suoi confini, in una terra desertica e lontana, meta di pellegrinaggi e di crociate e nome di una patria celeste che mai ha potuto coincidere con il luogo d’Europa. Situata in una determinata area del pianeta, piccolo promontorio d’Asia – come diceva Braudel – l’Europa appare comunque spostata rispetto ai suoi luoghi d’origine, risultato (quanto fortuito?) della trasformazione di uno spazio fisico in uno spazio culturale. Ha scritto Remi Brague, che “a differenza dell’America, lo spazio europeo non ha frontiere naturali […]. Le frontiere dell’Europa sono esclusivamente culturali”. Più che un luogo, l’Europa appare dunque come la presa di distanza da un luogo. Una linea di fuga, come quella intrapresa, secondo il mito, dalla fanciulla figlia di Agenore (Europa, appunto) strappata con violenza alla terra e gettata fra le spume del mare aperto dal toro Zeus.
Considerati in questa luce, i conflitti e le lacerazioni che segnano la storia d’Europa possono essere ricondotti agli atti di un unico dramma, costitutivo dell’idea stessa di Europa: il dramma o anche solo l’attrito fra la significazione e la localizzazione dei suoi spazi, nel senso del continuo spostarsi e trascendere della prima rispetto alla seconda. Lungi dall’essere un problema del nostro attuale rapporto con lo spazio europeo, la sconnessione fra i luoghi e i diritti, fra i diritti del luogo e il luogo del diritto, fra ethnos e nomos, fra le istanze localistiche di esclusione e le spinte universalistiche all’inclusione, fra sicurezza di confini e libertà di movimento, è il modo con il quale sempre facciamo esperienza dell’Europa: a partire da uno spazio, da una tradizione, da un’origine (ma anche da un trono o da un altare: si tratti del Papa o di Carlo V, di Napoleone o di Bismarck) in luogo di cui sta Europa. È solo uno di quei giochi di parole che tanto piacciono ai filosofi, ma che pur dice qualcosa: il luogo d’Europa è questo stare in luogo, il suo posto è questo prendere il posto. Dove qualcosa, una sovranità assoluta o un inoltrepassabile limes viene meno (per fortuna), lì c’è Europa.
Ma a cosa serve questo astruso filosofema? Anzitutto ad affrontare il processo europeo senza eccessive ansie identitarie, nella consapevolezza che la debolezza d’Europa, la pluralità e la relativa frammentazione del suo spazio, è anche la sua clausola di salvaguardia. Quando è saltata, l’Europa ha scritto le sue pagine più buie. E in secondo luogo, non certo a rinunciare all’unificazione europea, ma a cercarne la giusta misura: tra la rivendicazione etnocentrica, situata a un livello magari più comprensivo rispetto a quello delle antiche nationes ma pur sempre chiuso ed esclusivo, e lo sbiadimento in un ideale universale estraneo a ogni localizzazione. L’Europa non è mai stata uno solo di questi poli, ma sempre il movimento critico di riflessione su e fra di essi.
Col che il significato del voto spagnolo di domenica non sarà stato aumentato di un sol grammo, ovviamente, ma l’oggetto di quel voto, il Trattato costituzionale, forse non apparirà più solo come un farraginoso compromesso, bensì come il disegno più somigliante, in articoli e commi, allo spazio europeo.