Si può decidere di leggere Il collezionista di città dopo una recensione di Toni Capuozzo. Che, sul Foglio, parla quasi estaticamente del libro di Camillo Langone (“anarchico conservatore”, lo definisce) e che, siccome è un inviato di vaglia, se ne intenderà di viaggi no? Scrive Capuozzo che “Langone non è di quei viaggiatori che riempiono la borsa della propria anima con la politica e la sociologia”, “se ne frega delle tendenze oggettive… sceglie lui il punto di osservazione” e, forse grazie a ciò, ne azzecca qualcuna.
Tanto per cominciare Il collezionista di città non è un grand tour attualizzato. Non è cioè un tentativo di rigenerazione della nobile anima italiana. E non è neanche ricerca di un’essenza estetica e più pura dell’Occidente. Certo, c’è tutto il logorio della vita moderna dentro, ma Langone non apparecchia il tavolinetto nel traffico delle città d’Italia per sorbire il suo Cynar e ritagliare una parentesi fresca in una realtà di marmellata che si disfa. Almeno, non solo. Una realtà, comunque, che prende di petto millenaristicamente, tanto che l’immagine del sole che cala ricorre spenglerianamente spesso in questo libro che può essere letto anche a piccoli sorsi e che fa somigliare le città a tante tartine al bancone degli aperitivi (e forse è un altro pregio). Ma Langone, pur non essendo Goethe, non è neppure Piovene, che la realtà non la trasfigura ma la descrive. Semmai – e questo è stravero – cerca di raggiungere il nocciolo delle questioni fidandosi di un semplice indizio, di un accidente, di un fronzolo apparentemente accessorio. E utilizza strumenti che i più considererebbero per niente scientifici: uno spritz al loungebar, un rimorchio ancillare o – credo avrebbe potuto farlo per l’orrore delle vestali delle scuole di giornalismo – un bel dialogo con un tassista. Il “collezionista” è una specie di rabdomante che con il suo bastoncino alla fine trova sempre l’acqua.
Ma un libro di viaggi solitamente non si legge soltanto perché glielo ha suggerito Capuozzo, bensì per altri due motivi: o per farsi l’idea di un posto da vedere, oppure per vedere se lo spirito del posto dove si è nati o si vive è stato ben acchiappato. Qua si conoscono decentemente (o così si crede) l’Umbria e la Liguria. La Liguria è trattata soltanto di sguincio, quando – a pag. 128 – si dice che è una “regione coincidente con Genova” (vero). L’Umbria Langone la fotografa col trasporto del conservatore (“miracolo del monoetnico”, “insensibilità degli umbri all’arte contemporanea. Chiamali scemi”), ma anche con la penetrazione del “vagabondo” (è sempre l’estatico Capuozzo che scrive così) quando, dimenticando l’Eremo delle carceri e la Porziuncola di Assisi, passa in rassegna attrici e attricette che hanno visto la luce lì in mezzo, nella regione senza mare. E pensi che l’abbia colta ben bene: l’Umbria non ama il vero salto in avanti, è antropologicamente interna, intimamente conservatrice e l’unico modo che ha di proiettarsi nella modernità è esso stesso conservatore. Perché, pensateci bene, cosa c’è di meno progressista di Monica Bellucci (la “parigina”), Maria Elena Vandone (una delle scoperte di Gianni Boncompagni) e Sarah Cosmi (musa di Tinto Brass)?
Al di là di queste intuizioni spiazzanti (mi fido molto anche di quanto Langone scrive di Parma, per esempio), per il resto il libro è un po’ posone. E questo è il suo difetto più marcato. Che si può sopportare, sia chiaro, però è un difetto. Langone pare essere uomo piuttosto innamorato di sé e della propria immagine riflessa nella mente dei lettori e negli odi dei detrattori. Solo che non si riesce a capire quale sia la posa definitiva: il cattolico tosto? L’intellettuale malapartiano? La sensazione è che, alla fine, tutte le sue scopicchiate, i suoi culo-alto-ci-fo-un-salto e i Negroni siano maniera. E che sia in realtà prigioniero dello stereotipo del cattolico imbranato e bacchettone che voglia a tutti i costi dimostrare che no, ma chi l’ha detto? E poi c’è questa propensione per la verità apodittica che, intendiamoci, può essere anche sincerità e, visto che di cattolico pur sempre si tratta, antifariseismo. Congelare però una città in soggetto, predicato e, qualche volta, complemento ci pare francamente un azzardo.
A differenza di Capuozzo per il quale Il collezionista di città è un libro che fa venir voglia di starsene a casa propria, io mi riprometto di andarci ad Ancona, Potenza, Marsala, Ferrara, eccetera. Proprio per vedere in quale percentuale l’intuizione del rabdomante sia in realtà fortunata presunzione.