Dicono di ispirarsi agli U2, periodo “Achtung Baby”. Degli U2 sono stati all’inizio cover band, per poi diventare, dopo il successo del loro primo lavoro (“Hopes And Fears”, 2004), opening band per alcune date del tour di “How To Dismantle An Atomic Bomb”. Tra i si dice, la scelta del nome, caduta su una vecchia conoscenza scolastica dopo aver scartato una prima idea (“Coldplay”) passata a un compagno di corso (Chris Martin). Da qui, grazie anche a un percorso di carriera più lento e travagliato, il sospetto di essere musicalmente debitori al gruppo di “X&Y”, quando, in realtà, si sono mossi in contemporanea.
Non hanno avuto vita facile, i Keane. E il nuovo “Under The Iron Sea” – destinato in partenza a un successo magari anche più ampio del precedente (che raggiunse il primo posto in classifica nella prima settimana di vendita e vinse due Brit Awards oltre a una nomination ai Grammy) non è proprio un passo avanti.
Tom Chaplin (vocals), Richard Hughes (batteria) e Tim Rice-Oxley, amici d’infanzia in quel di Battle, East Sussex, fanno musica professionalmente dal 1997, quando intraprendono la carriera di cover band dedicata a U2, Oasis e Beatles. Una scelta nella quale si rispecchiano il gusto e la temperatura di quello che sarà il sound della band, la cui strumentazione si pone, per scelta, fuori dal canone pop-rock stabilito proprio dai pionieri di Liverpool: basso, sintetizzatori e piano – nessuna chitarra. Nel ’99 abbandonano le cover, arrivando all’esordio un anno dopo con il singolo “Call Me What You Like”, doppiato nel 2001 da “Wolf At The Door”; in questa fase, è ancora in organico il chitarrista Dominic Scott che lascerà di lì a poco. Le cose si trascinano fino al 2002, quando il produttore Simon Williams viene invitato ad assistere a un concerto: convinto, Williams produce il secondo singolo “Everybody’s Changing” che sfonda in radio, portando alla firma con la Island Uk. Il quarto singolo “This Is The Last Time” (profetico?) anticipa di poco la consacrazione clamorosa, quando “Hopes And Fears” ripaga i Keane della gavetta: più di cinque milioni di copie vendute da Maggio ’04.
Seguono tour, ristampe e l’ep “Live Recordings”, oltre all’impegno con l’associazione War Child. Occorrono quasi due anni prima che i Keane ritornino in studio per il secondo passo, un tempo giustificato proprio dal grande successo del primo; ancora una volta, il peso, la dimensione e l’attesa creano un’ombra mostruosa che s’allunga sul nuovo lavoro, oscurandolo.
Era già successo ai loro mentori, gli U2: “October”, riflessivo e attento, finiva per sfigurare nel confronto con la potenza di “Boy”; a più di un quarto di secolo di distanza, i Keane vorrebbero essere altrettanto attenti e riflessivi, ma riescono soltanto ad assomigliare agli U2 periodo “All That You Can’t Leave Behind”, ovvero un gruppo conscio della propria identità ma curiosamente impegnato nella ricerca della stessa. “Under The Iron Sea” (giugno ’06) parte alla grande con la suggestione di “Atlantic” – che resterà, insieme a “The Iron Sea”, il pezzo migliore dell’album – ma perde quota subito con “Is It Any Wonder” (il singolo, già arrivato al nr.3 della classifica Uk), primo di una serie di brani troppo simili tra loro e troppo prevedibili (potrebbero almeno evitare di finire sempre in diminuendo?); abbonda l’effetto orchestrale e in alcuni passaggi sembra di riascoltare gli Echo And The Bunnymen di “Ocean Rain”: un buon album, a suo tempo – ma, appunto, anche da lì sono passati più di venti anni. Emergono, in parte, “Hamburg”, “Broken Toy” e “Leaving So Soon” (dove Chaplin si ricorda di non imitare Bono); deprimente “Crystal Ball”, prossimo singolo, e dimenticabili le bonus tracks.
La maledizione del secondo album colpisce ancora, quindi non resta che attendere fiduciosi il terzo, soprattutto se i Keane sapranno liberarsi da padri putativi ingombranti e condizionanti. Non dovrebbe essere difficile, visto quanto gli U2 siano impegnati a liquidarsi da soli.