Il «sentiero stretto» è stato il modo in cui negli ultimi sette anni, nel mezzo della peggiore crisi economica dalla seconda guerra mondiale, si è definita la missione di un riformismo italiano chiamato alla sfida di governo sull’onda di continue emergenze. Il sentiero stretto, così definito da quelle élite liberali che si fanno interpreti dei vincoli derivanti dall’Europa e dal mercato finanziario internazionale, imponeva al governo di impostare un’agenda riformista nel solco di strettissime compatibilità: deroghe alla regola del pareggio di bilancio consentite solo da congiunture recessive, bussola fissa sulla riduzione del debito pubblico, flessibilità del lavoro, sgravi fiscali solo alle imprese e contenimento dei salari, esternalizzazione di manodopera con forte compressione dei costi, riduzione della leva del credito e della sua erogazione discrezionale (così il credito però finisce sempre a chi meno ne ha bisogno), delegittimazione degli assetti di controllo e indirizzo pubblici sulla grande impresa strategica e sul settore finanziario. Un sentiero troppo stretto che il giovane gruppo dirigente del Pd ha incessantemente (sebbene non sempre fruttuosamente) denunciato in questi anni, e che ha generato l’enorme massa di conflittualità sociale riversatasi nelle urne.
L’Italia è un paese in cui ormai da moltissimi anni disoccupazione, precarietà del lavoro e assenza di prospettive di stabilità per il futuro (casa, figli, welfare, pensione) hanno fatto smarrire a un’intera generazione, specie al sud, il senso di appartenenza alla nazione e al corpo sociale, in cui pressione fiscale e ristrettezza del credito hanno reso la vita sempre più difficile alle piccole e medie imprese, in cui le riforme del lavoro, degli appalti, della scuola, della pubblica amministrazione si sono dovute fare pressoché senza spesa e senza incrementi salariali idonei, quindi senza poter dare all’applicazione di nuove e necessarie regole di trasparenza, efficienza, disciplina e valorizzazione del merito il senso di una rinnovata dignità e missione per le grandi comunità di lavoro pubbliche e private. Un paese che, dopo aver visto più che decuplicare in dieci anni la popolazione di lavoratori immigrati in un contesto di tensione molto contenuta dei pur latenti conflitti culturali e sociali, negli ultimi anni ha dovuto assistere all’incessante e terribile spettacolo – perché tale è diventato anche grazie alla tv – di migliaia di immigrati-naufraghi spesso senza nome che approdavano sulle nostre coste. Un paese lasciato solo dai partner europei a gestire le conseguenze di questa tragedia mediterranea.
Le periferie delle nostre città si sono trasformate anche a causa di questo afflusso, generando paura e rabbia. Tutto questo ha fatto montare quell’insieme di delusioni, paure e rancori che ha fatto orientare gli italiani in un voto massiccio verso i cinquestelle al sud e la Lega nel centro-nord, lasciando al Partito democratico i ceti medi delle grandi città del centro-nord e parte del tradizionale insediamento appenninico. Il Pd ha detto e fatto molte cose per uscire dai vincoli di un sentiero stretto che lo portava a essere identificato con un establishment inviso alla grandissima maggioranza della popolazione. «Tornare a Maastricht» e «abbassiamo le tasse» erano parole d’ordine giuste per un sentiero un po’ meno stretto su cui non ci si è potuti nemmeno incamminare.
Non è questa la sede per analizzare gli errori politici e le sconfitte che non hanno consentito al Pd di coagulare le forze e il consenso necessari per riuscire davvero a forzare la mano agli establishment nazionali e internazionali. Ci sarà un percorso congressuale che dovrà discutere di questo senza reticenze e senza posizioni preconcette, perché il risultato delle urne è “scandaloso” in senso evangelico: costituisce un’occasione di verità e di rinascita. Per il Pd la strada indicata dal voto è sin troppo chiara. Bisogna trovare al proprio interno le forze per ripartire dall’opposizione, per un nuovo viaggio in Italia, non solo alla ricerca delle eccellenze nascoste, ma per l’ascolto delle delusioni e delle paure di chi non ce la fa, con l’obiettivo di rigenerare, insieme a quel popolo, l’insediamento sociale, il sistema di alleanze e il progetto di governo per l’Italia.
In questo quadro è importante che il senso di responsabilità nazionale e la corretta interlocuzione istituzionale restino tratto distintivo del Pd, nei limiti realistici del ruolo assegnatogli dal 18,7%, che è quello dell’opposizione. Sembra inevitabile che centro-destra e cinquestelle si mettano d’accordo per governare e per provare a far accogliere le loro proposte dall’establishment europeo. Le contraddizioni cominceranno presto a manifestarsi. C’è spazio per una opposizione senza sconti, con forti radici sociali ma senza demonizzazioni e caricature: i loro rappresentanti sono quel che sono, ma il popolo che li ha votati esprime domande che vanno ascoltate.