L’elaborazione del lutto nel Pd

Le fasi di elaborazione del lutto formulate nel suo celebre modello dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler sono lo shock e la negazione, la rabbia, la fase della contrattazione (in cui ci si rimette in piedi e si cerca di capire cosa siamo in grado di fare), la depressione e infine l’accettazione. Da lì è tutta discesa, e si entra nella fase della speranza. Possiamo applicare questo modello anche alla peggiore sconfitta della sinistra dal 1948 a oggi, per dire che siamo in piena fase di negazione e rabbia. L’elaborazione del lutto dipende dalle sue dimensioni, e in questo caso parliamo di una sconfitta epocale per l’area progressista: un cambio di paradigma, la fine di una stagione politica, o anche solo una batosta che non si dimentica per un pezzo.

In una poetica analisi della sconfitta, il ministro dell’Interno Minniti ha citato Majakowskij («La barca dell’amore si è schiantata contro l’esistenza quotidiana») per spiegare l’incapacità di trovare risposte alle domande di un elettorato in fuga; ma è un’altra la frase di Majakowskij che sembra raccontare questi giorni post-elettorali, quella della nave che affonda e dell’ordine in cui scappano intellettuali, topi e puttane. Sono passati pochi giorni dai risultati e il capo politico del Movimento 5 Stelle, da scarso masticatore di congiuntivi, è diventato un piccolo Adenauer che giorno dopo giorno raccoglie il sostegno di industriali, giornalisti, padri della patria. Il dibattito si è spostato dai pericoli di un’affermazione così larga di populisti, anti-europeisti e xenofobi al rapporto tra il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico. Le richieste di assumersi la responsabilità di sostenere un governo grillino, pur di evitare un governo a traino leghista, si sono moltiplicate. Tutti premono sul partito che ha oggettivamente perso le elezioni, affinché si decida a fare un governo con uno dei partiti che le hanno vinte, come se i risultati elettorali fossero i punteggi del golf: vince chi fa meno punti.

La sconfitta del Partito democratico ha disorientato, e la fase della negazione forse giustifica alcune reazioni, ma è il momento di darsi una calmata e conquistare un minimo di lucidità, perché in gioco c’è molto più della formazione di un governo, e in fondo al tunnel si rischia di trovare la disintegrazione di un’intera area politica: sinistra, socialdemocrazia, progressismo, comunque la si voglia chiamare. Per questo gli appelli al Pd, adesso, sono completamente fuori tempo. Per un partito che perde le elezioni questo è il momento di capire cosa è successo, quali sono state le risposte sbagliate e le domande che non si sono capite. L’analisi della sconfitta, l’autocritica, i rituali con cui una comunità politica deve fare i conti quando deraglia in questo modo.

La democrazia ha i suoi tempi, e non si capisce perché li debba dettare il partito che ha perso, mentre i vincitori avanzano con circospezione. Probabilmente paghiamo anche cattive abitudini contratte in questi anni di maggioritario, vero o presunto, di “governi non eletti dal popolo”, “inciuci” e tutto l’armamentario con cui abbiamo disimparato a convivere con quello che siamo: una democrazia parlamentare. Non siamo più abituati ai tempi felpati di maggioranze che si dipanano in settimane. La liturgia delle consultazioni è lontana, le camere non sono ancora insediate, ma sembra che tutto debba essere deciso in pochi giorni. Sono lontani i tempi in cui Arnaldo Forlani, uscendo dalle consultazioni con il presidente incaricato Spadolini, dopo che il Partito socialista aveva fatto cadere il governo De Mita, usava espressioni come «abbiamo confermato l’impegno della Democrazia cristiana a ricercare in modo risoluto le condizioni di un rinnovato rapporto di collaborazione e di corresponsabilità fra i partiti che noi riteniamo possano concorrere oggi a una maggioranza parlamentare e a una responsabilità di governo». Troppo? Certo. Ma forse da quella tradizione potremmo recuperare almeno un manuale di gestione dell’ansia. I tempi saranno lunghi, il Partito democratico ha perso le elezioni, dunque la palla è nel campo degli avversari: non ce l’ha il Pd. Accusare il Pd di volersela portare via significa, semplicemente, non aver visto la partita. O non averla capita.