Al pil e all’occupazione italiana manca da decenni la quota generata dalla spesa pubblica perché il debito non lascia margini per farvi ricorso. Il debito esplode negli anni 70 e 80, per spegnere la guerra civile ereditata in forma latente dalla malcerta unificazione nazionale ed esacerbata dalle ristrutturazioni indotte dalla crisi degli accordi monetari di Bretton Woods e dalla immediatamente successiva esplosione dei prezzi del petrolio. La scelta, al servizio dell’urgenza d’allora, fu di soddisfare ricorrendo al debito la domanda di consumo di tutti. Ma, penalizzando in tal modo l’uso del debito per investire, lo sviluppo successivo fu condannato a rallentare rispetto agli altri stati europei, sicché ormai abbiamo imparato che l’Italia «cresce meno degli altri» e più degli altri soffre delle crisi.
Negli ultimi dieci anni la crisi è stata ovunque di inusuale profondità e, privi della funzione anticiclica della spesa pubblica, abbiamo sofferto moltissimo e moltissimi stanno soffrendo ancora. Fino al punto che l’emergenza della “guerra” interna si ripresenta battendo cassa sotto forma di “populismo”: anti tasse al nord, assistenziale al sud (anche se ci sono molti sud al nord e qualche nord al sud). Queste le ragioni di lungo periodo che hanno fin qui premiato ogni proposta di rottamazione (Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini) penalizzando l’approccio del gradualismo razionale che, essendo realistico, ha il non lieve difetto di operare su tempi in cui i disoccupati si temono morti e i mutui insoluti.
La più recente “rottamazione”, a differenza delle rivoluzioni del primo novecento, non guarda a un orizzonte nuovo, ma ai flussi di cassa, contesi fra soggettività antagoniste (la Gente, la Casta, i Pensionati dorati, Noi, Loro…). Da qui la natura teatrale e “sensazionalista” consustanziale a quella dei mass media, di per sé vele per l’aria che tira. Più che il momento del “Che fare?” questa sembra, parlandone fra gradualisti soi disant razionali, la volta del “dove guardare?”. Perché c’è differenza fra il radicalismo di destra di Salvini, espresso dalla parte più arretrata e sofferente delle imprese non esportatrici, orfane del consumo interno generato dai privati e specialmente dallo Stato, rispetto alla spinta presente nei cinquestelle a diminuire quella concorrenza fra la forza lavoro che sta alla base della indubbia crescita della infelicità e delle diseguaglianze.
Per questo, sul piano strategico, mentre verso Salvini pare ovvio il muro ideologico, che non esclude comuni interventi di soccorso pubblico a zone in sofferenza, verso il lato dei cinquestelle, cioè quello della re-distribuzione, c’è una interrogazione-sfida da raccogliere che gira attorno a una domanda: quanta re-distribuzione possono sopportare le élite senza insorgere e saldarsi con la destra e, anzi, separando la destra cosmopolita da quella nazionalista La risposta, pare ovvio, non sta nelle pieghe della contabilità, ma in visioni nuove che sfuggano all’insensatezza affannosa del qui ed ora. Occhi e orecchi nuovi per pensieri nuovi, a dirla in breve. A costo di ricorrere ai trapianti.