A partire dall’allarme suscitato dal colpo elettorale trumpista della destra radicale, Facebook è nella tempesta (ieri ha perso il 7% a Wall Street) perché è divenuto evidente che il suo nocciolo, che sarebbe la “condivisione”, agevola la naturale propensione degli individui a rinchiudersi nelle nicchie e bolle di chi gli somiglia. Così ritraendosi dal confronto pubblico ed esponendosi a fini – commerciali e politici – che tirano al proprio mulino l’acqua delle passioni dei gruppi e, perfino, delle specifiche singole persone. Da qui il danno strutturale alla democrazia dell’agorà, cioè quella liberale, in cui gli individui – altro che amici – si confrontano e scontrano come singoli, come partiti, come sindacati…
Peraltro il pericolo non è del tutto nuovo perché da sempre i mass media, e oggi ancor più i social network, vivendo dei ricavi della pubblicità, non creano il “social”, ma lo frammentano in sottoinsiemi. Assai grossolani quelli dei media tradizionali (stampa tabloid e d’opinione, musica colta e pop, programmazione giovanile e adulta…); sottoinsiemi più dettagliati quelli dei social perché il network è in grado di raggruppare in “tipi” le persone più lontane, di superarne la dispersione e di costituire masse della misura giusta per la pubblicità e la propaganda di precisione. Per non parlare delle liste di persone individuate non solo come tendenza, ma anche per nome, cognome e indirizzo.
Così funziona Google, che connette nello stesso motore di ricerca le domande che uno fa e le offerte di prodotti che gli somigliano; così funziona Facebook, grazie ai profili di registrazione, ai posizionamenti e alle azioni dell’utente (gli piacciono i gatti o i cani? scrive di esplosivi? commenta i film sentimentali?); così funzionano Twitter, Instagram, Snapchat e qualsiasi piattaforma di collegamento interindividuale. Perché è la pubblicità (di cui la propaganda politica è solo una peculiare manifestazione) che paga le spese e fornisce i guadagni.
In questo sistema, spinto da forze immense, le deprecate fake news vanno considerate per quel che sono: efficaci agglutinanti di nicchia. E non ci sarà mai verso di debellarle, anche a prescindere dalla vaghezza del confine fra il fake e il suo contrario. Incaponirsi sulle censure è, esattamente, una lotta contro i mulini a vento. Piuttosto ci sarebbe bisogno di sistemi che, anziché campare vendendo alla pubblicità i frammenti del sociale con relative liste dei singoli utenti da circuire e conseguenti saltuari “scandali”, come nel caso Cambridge analytica, siano ripagati dall’utilità di leggere la società senza l’obbligo di bilancio di dover vendere qualcosa agli utenti dei loro sistemi, ma piuttosto a chi, imprese creative e istituzioni, persegue una comprensione meno immediatamente strumentale della società (ci pare talmente necessario che qualcosa del genere, perfino noi, ma non da soli, stiamo provando a realizzare, e ne accenneremo a tempo debito, forse tra breve). Del resto, se la guerra è troppo seria per lasciarla ai generali, figuriamoci se la comunicazione può essere abbandonata ai pubblicitari!