Monochrome” è il titolo scelto dagli Helmet di Page Hamilton per proseguire il discorso ripreso, dopo anni di inattività, nel 2005 con l’interessante “Size Matters” (Left Wing 12/04): il caso vuole che in entrambi i lavori la band abbia prodotto un risultato fedele alla lettera del titolo e quindi, dopo il buon esito delle “dimensioni che contano” si deve – purtroppo – registare la deludente “monocromia” dell’attuale proposta.
Dopo essere stati capiscuola dell’hardcore metal, gli Helmet si sono progressivamente dispersi, vuoi per crisi d’ispirazione, vuoi per i troppi cambi di formazione: dell’originale line-up è rimasto il solo Page Hamilton che è l’indiscusso motore del progetto; tuttavia, anche un motore perfetto necessita di altri componenti per creare un movimento. Persi lungo la strada i vari Stanier, Bogdan e Mengede, indispensabili elementi della fucina sonora Helmet, la reunion dello scorso anno si giovava del contributo di Frank Bello e John Tempesta, entrati nel progetto con una convinzione rispecchiata dal prodotto finale; “Monochrome” vede l’ingresso di una nuova, ennesima, sezione ritmica composta da Jeremy Chatelain al basso e Mike Jost alla batteria: volonterosi ma inadeguati allo standard della band, più che alla circostanza. Se le iniziali “Swallowing Everything” e “Brand New” illudono, evocando per qualche minuto antiche atmosfere, già la terza traccia (“Bury Me”) annaspa nel tentativo di ricopiare la precedente; e dalla title-track in avanti si assiste ad una rapida discesa agli inferi della confusione e della progressiva dissipazione di quelle che sono sempre state le qualità peculiari degli Helmet (profondità e compattezza) in favore di un sound leggero e rarefatto, gracile e di poco spessore. A complicare ulteriormente le cose, Hamilton decide anche di cambiare tono di voce, abbandonando per più di metà album il suo timbro caratteristico: l’esito è, a dir poco, discutibile. Dal grigiore generale si sollevano appena “Howl”, poco più di un brillante esercizio chitarristico (Page sembra impegnato ad imitare le bagpipes dei Korn) e “Goodbye”, costruita da un buon riff e sporcata da un interminabile finale di ben 1’:25”; il punto più basso si tocca con “Almost Out Of Sight” che vorrebbe essere la sommità dell’Elmetto e non riesce, nella sua fiacchezza compositiva ed esecutiva, ad esserne nemmeno la cinghia. Si sfiora il pop-metal, ciò che non costituirebbe un problema, di per sé, in un altro contesto.
Questo, invece, è un lavoro che il suo autore principe presenta come un radicale ritorno alle radici, sottolineato dalla presenza alla consolle del produttore Wharton Tiers, già alle redini ai tempi di “Strap It On” e “Meantime”; e se Tiers è il garante dell’operazione-qualità, allora i casi sono due: o la categoria dei produttori è in crisi artistica (vedere alla voce Red Hot Chili Pepper/Rick Rubin) o nessuno si è preso la briga, qui, di riascoltare i vecchi brani. Comunque sia, anche i fan più accaniti – purché dotati di orecchie – non potranno negare il divario tra “Monochrome” ed anche solo il suo immediato predecessore: dove sino ad ora almeno la passione e l’energia avevano sorretto le incertezze della costruzione, il nuovo album difetta anche in partecipazione al punto da far sospettare che per Hamilton sia arrivato il momento di dichiarare il rompete le righe e dedicarsi all’amato jazz. I suoi assolo, unica parte interessante del disco, sono precisi e puliti come un indizio; a questo punto della sua carriera, con un passato di headliner che ha generato un’intera scena ed almeno due album entrati di diritto nella Storia del Metal, PH potrebbe davvero pensare al salto di genere, magari con esito felice. Meglio correre il rischio di una decisa riforma che mantenersi nella grigia certezza della conservazione.