Negli ultimi tempi un largo fronte di intellettuali, giornalisti e opinionisti della stampa e della tv ha teorizzato con foga che il Partito democratico non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di appoggiare un governo del Movimento 5 Stelle. A sostegno della tesi sono state portate varie, e anche opposte, motivazioni, come diverse sono le premesse ideologiche dei numerosi promotori di simili appelli: da quelli che pensano che un’alleanza M5S-Pd potrebbe realizzare una sorta di socialismo dal volto umano, a quelli che pensano, al contrario, che il Pd dovrebbe appoggiare un governo cinquestelle proprio per garantire continuità rispetto a rigore nei conti pubblici, vincoli europei e collocazione internazionale del paese. Lascio da parte chi propone motivazioni di carattere etico-spirituale, sostenendo che dovremmo cogliere tale opportunità per «riscattarci». Tesi che ha comunque il pregio della coerenza: avendo i cinquestelle (proprio come la Lega, non a caso) chiesto un mandato agli elettori per smontare e capovolgere tutto quello che abbiamo fatto noi, l’unico motivo plausibile per appoggiarli, da parte nostra, non potrebbe essere che il desiderio di “riscattarci” da tali responsabilità. Magari dopo una pubblica abiura.
Intendiamoci. È giusto riflettere e discutere di tutto: della guerra e del fisco, dell’euro e dell’immigrazione. C’è però qualcosa che viene prima. Perché a dividerci dal Movimento 5 Stelle è anzitutto una diversa idea della democrazia. Su questo, qualche giorno fa, Biagio de Giovanni ha scritto sul Mattino cose importanti: un movimento che si fonda sulla contestazione del principio della democrazia rappresentativa mette in discussione la sintesi tra democrazia e liberalismo su cui si fonda la nostra Costituzione, e l’intero occidente liberaldemocratico. Accettare una simile posizione come fosse un vezzo, o una simpatica stranezza, significa aprire le porte a un principio autoritario che non a caso emerge quotidianamente nella vita interna di quel movimento. E che da tempo si sta facendo largo in vari modi, pericolosamente, nel mondo. Possiamo fingere di non vederlo, in nome di convenienze tattiche o di un superiore, e malinteso, interesse nazionale? E quale interesse nazionale è superiore alla difesa dei principi-cardine della democrazia rappresentativa? Questa è la prima domanda cui occorre rispondere. Ma dobbiamo capirci bene, perché non stiamo parlando di questo o quel punto di un programma elettorale, che può sempre essere oggetto di trattativa e compromesso. Stiamo parlando della ragione per cui facciamo politica. E stiamo parlando, anche, della ragione più profonda della nostra sconfitta alle elezioni del 4 marzo.
Perché la verità è che in Italia una maggioranza già c’è: è la maggioranza formata da tutti quelli che pensano che legalità significhi autoritarismo, che i diritti e le garanzie siano un ostacolo e che per sconfiggere il crimine occorra soltanto riempire le carceri, riempire i cittadini di armi e dar loro licenza di uccidere. Lo ha scritto qui, benissimo, Andrea Vigani: «È una maggioranza solida, stabile, contraria a ogni beneficio penitenziario per i detenuti e alla funzione rieducativa della pena (e quindi alla Costituzione), indifferente alla separazione dei poteri (e quindi alla Costituzione), ostile alla libertà del mandato parlamentare (e quindi alla Costituzione), che inneggia ogni giorno a una Costituzione scritta dai partiti antifascisti ma ha un’idea dello stato assai più simile a quella del regime precedente». Non c’è bisogno di un comitato di professori per valutare il grado di omogeneità politica del nostro o degli altri partiti a questi valori. È evidente a tutti: questa è la vera base valoriale, politica e culturale dell’intesa tra cinquestelle e Lega. Non è questione di programma, ma di identità. Nel senso che sono proprio la stessa identica cosa.
Per questo non possiamo accettare la rappresentazione del Movimento 5 Stelle come forza di sinistra. E non solo perché si tratta di un’affermazione sistematicamente smentita dagli interessati, i quali, come tutte le organizzazioni della destra più reazionaria, dall’Uomo qualunque degli anni cinquanta alle liste cripto-fasciste dei consigli d’istituto della nostra giovinezza, dicono sempre di non essere «né di destra né di sinistra». Il punto è che non basta enunciare la necessità di protezione sociale per essere di sinistra: lo fa anche Casapound. Il punto è che risposta si dà a quell’esigenza. Il Partito democratico, ad esempio, è contrario al reddito di cittadinanza non perché costa troppo, ma perché ne considera inaccettabile l’idea di fondo, e cioè che il lavoro sia solo lo stipendio, e quindi possa essere sostituito da un assegno. Mentre per noi, per la nostra cultura politica, per la nostra storia e per la Costituzione che lo afferma nel suo primo articolo, il lavoro è ciò che garantisce dignità alla persona, è lo strumento attraverso cui si costruiscono relazioni sociali e soggettività politica, è il fondamento della cittadinanza. Del resto, anche qui, se non ci si ferma alla superficie, si vede chiaramente la naturale convergenza tra i cinquestelle e la destra. Il principale tratto comune dei programmi economici del centrodestra, infatti, è l’impegno a un drastico taglio della spesa pubblica con cui finanziare la flat tax. Ma anche, volendo, il reddito di cittadinanza. Non per niente – premesso che le due cose non possono essere equiparate, in quanto la flat tax è agli antipodi dei principi costituzionali e del modello sociale europeo, imperniato su forte progressività delle imposte e welfare universalistico – anche il reddito di cittadinanza viene proposto dai cinquestelle come alternativa al welfare pubblico, per di più da realizzare insieme a una forte riduzione delle tasse, e può quindi trovare le risorse necessarie solo a una condizione: lo smantellamento dello stato sociale. Senza dimenticare che anche la revisione della riforma Fornero, se verrà realizzata, è destinata a essere finanziata con un taglio massiccio delle pensioni del ceto medio (o a portare l’intero sistema pensionistico al dissesto, e quindi alla messa a rischio delle pensioni di tutti gli italiani).
Sono solo alcuni esempi, tra i molti che si potrebbero fare, del perché non c’è alcuna possibilità di una collaborazione con il Movimento 5 Stelle, che non è una costola della sinistra e non è meno lontano dal Partito democratico di quanto lo sia la Lega. Il Pd non può che stare all’opposizione di entrambi questi partiti, che sono al tempo stesso reazionari ed estremisti. E nessun confronto più o meno strumentale potrà cambiare questo dato di fatto, se non snaturando a tal punto la natura del Pd da decretarne la fine.
Opposizione, però, non significa Aventino (che semmai è l’esatto contrario), né “lasciar fare” i partiti usciti vincitori dalle urne, in attesa che il pendolo dell’alternanza riconsegni a noi la guida del paese. Nessuno ha in mente un’idea così inerziale del nostro ruolo. Del resto, da quando in qua l’unico modo di fare politica è stare al governo? Nessuna idea della politica è più minoritaria di questa, che fa coincidere l’unica e sola possibilità di giocare un ruolo con un posto in maggioranza. Mentre il principale limite del Partito democratico è stato semmai proprio nell’incapacità di svolgere appieno, nella società, quella funzione nazionale ed europea che ha saputo svolgere dal governo, difendendo l’interesse del paese nella battaglia contro l’austerity e per una gestione comune dell’immigrazione, senza cedere né alla facile demagogia dei populisti né alle teorie autolesioniste dei liberisti di casa nostra. In questo senso, l’opposizione può essere la trincea da dove presidiare l’interesse nazionale e i principi costituzionali, ma anche il terreno su cui ricostruire il Pd come grande partito nazionale, popolare ed europeo.
Quello di cui sto parlando non ha evidentemente nulla a che fare con il genere di opposizione che cinquestelle e Lega hanno fatto in questi anni. E qui c’è un’altra differenza sostanziale tra noi e loro. Un conto, infatti, sono la battaglia politica, la propaganda e la polemica, anche le più aspre, che sono sempre legittime. Altro conto sono le campagne di diffamazione, l’insinuazione a prescindere e le accuse a casaccio come arma politica quotidiana. È questo modo di sostenere le proprie posizioni che deve essere combattuto, e non solo in politica, perché è una minaccia per la convivenza civile, come sa chiunque abbia mai aperto un social network. Non si tratta di buone maniere, ma di trasparenza. Si tratta di ripulire il dibattito pubblico dall’uso sistematico delle falsità e delle insinuazioni come strumento di lotta politica. E questo, per noi, è la prima e irrinunciabile condizione per parlare con chiunque: lo dobbiamo non solo ai nostri militanti ed elettori, che sono stanchi di essere insultati, ma a tutti gli italiani, che meritano un sistema democratico libero dalle scorie della disinformazione e del fanatismo. Perché il modo in cui si conduce la lotta politica non è una questione di forma o di bon ton. È un tema di qualità della democrazia. Perché a forza di delegittimare tutto si finisce per non credere in nulla, nemmeno nella scienza, come dimostrano le assurde, e pericolosissime, polemiche sui vaccini.
Non sarebbe giusto, però, scaricare la responsabilità di questo stato di cose esclusivamente sul Movimento 5 Stelle. La campagna contro la politica e i partiti, contro le istituzioni, le forme e i principi della democrazia rappresentativa è iniziata ben prima che Beppe Grillo decidesse di aprire un blog. E il Partito democratico che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti durante il governo Letta e invitato a tagliare le poltrone dei politici durante la campagna referendaria ha la sua buona parte di responsabilità. D’altra parte, va detto che alla diffusione di quelle parole d’ordine hanno contribuito per decenni, in una forma o nell’altra, buona parte delle classi dirigenti liberali di questo paese, l’ottanta per cento dei giornalisti e il 99 per cento degli editori. E anche – dobbiamo dircelo – la sinistra. O almeno la sinistra dell’indignazione perenne: quella che si compiace di rappresentare una ristrettissima minoranza di puri imprigionati non si sa come in un paese di farabutti. Nella Seconda Repubblica, nata non a caso da due eventi opposti eppure convergenti come l’inchiesta Mani Pulite e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, i riformisti hanno denunciato sin dall’inizio quella deriva antipolitica e sovversiva. E a chi ci spiegava che sbagliavamo, che la vera sinistra era proprio quella che invocava la forca per gli avversari politici, abbiamo sempre replicato che, al contrario, quella era la nuova destra. E non solo perché faceva concretamente il gioco di Berlusconi, ma perché della destra peggiore e più radicale assumeva le parole d’ordine e la cultura: il gusto per la giustizia sommaria e il capro espiatorio, la paura del futuro e la chiusura nei confronti di ogni diversità, la pulsione autoritaria e il disprezzo per i partiti e il parlamento. È questa la vera e indicibile ragione per cui tanti intellettuali, di fronte all’abbraccio tra Di Maio e Salvini, corrono in televisione o sui giornali a sostenere l’insostenibile, pronti a negare l’evidenza, pur di allontanare il sospetto che un governo Lega-M5S dimostri definitivamente chi aveva ragione e chi aveva torto in quella discussione.
Per averne conferma, basta vedere cosa sta succedendo nell’America di Donald Trump, e l’influenza che la sua ascesa ha già avuto nel mondo. Un salto di qualità che – come ha scritto qui Francesco Cundari – impone di rivedere i termini del dibattito che la sua vittoria, insieme con l’esito del referendum sulla Brexit, aveva aperto anche tra di noi, a proposito del distacco tra sinistra democratica e masse popolari. Se è vero, infatti, che il successo di Trump è stato favorito anche dalla ritirata di una cultura progressista che ha smesso di rappresentare larga parte dei nuovi esclusi della globalizzazione, tra le manifestazioni anti-Trump che chiedono limiti alla diffusione delle armi da fuoco e le manifestazioni pro-Trump che gridano slogan contro neri ed ebrei dietro svastiche e croci celtiche, nessuno può avere dubbi su dove siano la destra e la sinistra, o su chi stia davvero dalla parte dei più deboli. Certo che la sinistra non può occuparsi solo di diritti civili, dimenticando la questione sociale, se non vuole trasformarsi in una élite senza più rapporto col popolo. Ma se in nome della questione sociale rinuncia al diritto, si trasforma in fascismo.
A Macerata, dove un neonazista già candidato come consigliere comunale dalla Lega si è messo a sparare ai migranti e a una sezione del Pd, la Lega è passata dallo 0,6 al 20 per cento. E mentre Matteo Salvini e gli altri leader del centrodestra non esitavano a giustificare l’attentatore con parole incredibili, Luigi Di Maio e i cinquestelle rifiutavano esplicitamente di commentare in alcun modo l’accaduto, non fosse mai che una presa di posizione troppo netta facesse loro perdere qualche voto. Magari proprio tra quegli ingenui che li considerano ancora di sinistra. Ebbene, popolare o impopolare che sia, anche di questo noi continueremo a parlare, e non c’è considerazione di opportunità politica o elettorale che ci farà indietreggiare di fronte al fascismo e alla violenza razzista. Non a caso, nella tradizione della sinistra, popolo non è solo un concetto sociologico, ma anche un concetto politico. Un concetto che contiene almeno una dimensione costruita, plasmata e rivitalizzata dalla politica: dalla sua capacità di suscitare aspettative e opportunità, coscienza dei propri diritti e senso di appartenenza. E anche fiducia. Perché a gridare che tutto fa schifo e non c’è niente da fare si prenderanno magari gli applausi dei tanti disperati ed esasperati che la crisi ha spinto ai margini, ma per costruire con loro una via d’uscita dalla disperazione serve anzitutto fiducia in se stessi e nel prossimo.
Per poter dire qualcosa di significativo, però, la politica deve prima riconquistare diritto di parola: questo è il punto decisivo che si nasconde dietro le mille campagne contro la «casta». Perché l’afasia che ha colpito la politica – e anche, come ha notato qui Massimo Adinolfi, la filosofia – non ha colpito allo stesso modo tutti i saperi. Politica e filosofia tacciono, e sembrano divenute improvvisamente incapaci di dire una parola sul futuro, ma le scienze parlano eccome. Sfornano continuamente proiezioni, stime e scenari, con cui invitano la politica ad agire per sventare minacce incombenti. Abbiamo sempre meno parole sul futuro, e sempre più strategie per sterilizzarne i pericoli. Eppure è proprio questo il compito che spetta oggi alla politica e al Partito democratico: fare della politica il luogo in cui torna ad avere un senso ragionare sul futuro, cioè su una cosa diversa da quella che c’è ora. Fare la guerra allo scetticismo, al cinismo e al complottismo paranoico che sembrano ormai dominare lo spirito del tempo, e che sono solo diverse facce di un disperato individualismo.
Questo è il posto che spetta oggi alla sinistra e al Pd, ed è un posto di combattimento.