E se qualcuno tirasse fuori non un Manuele Paleologo qualunque – un imperatore assai dotto, d’accordo, ma poco noto al grande pubblico – e riprendesse di bel bello la Summa contra gentiles di San Tommaso d’Aquino, libro primo capitolo sesto, là dove si legge che Maometto lusingò e istigò la concupiscenza della carne per essere obbedito non da uomini saggi ma da uomini bestiali, intorbidò la verità con molte favole e falsissime dottrine, e si disse mandato da Dio in armorum potentia, che ben lungi dall’essere un segno della divina ispirazione, è contrassegno pure di ladroni e tiranni? Il contesto, peraltro, si presta. Tommaso sta spiegando che altra è la via che segue il cristiano: non la violenza delle armi, e nemmeno quella delle promesse carnali. Il fatto è che le verità della fede cristiana eccedono la ragione, ma non sono mica contrarie ad esse, sicché non solo uomini semplici ma anche una turba innumerevole di uomini sapientissimi convolavit a nozze con la fede. Con Maometto, invece, solo predoni del deserto.
Ora, nel discorso pronunciato dalla cattedra dell’università di Regensburg, che tante reazioni sta suscitando nel mondo, Benedetto XVI voleva dire due cose: che “la violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima” e che “agire contro la ragione [è] in contraddizione con la natura di Dio”. Puro Tommaso, come si vede. E come Tommaso, il Papa si è limitato a scegliere Maometto ad esempio di quel rapporto tra religione e violenza che non è compatibile con la natura di Dio. Certo, il New York Times ha ragione di allarmarsi, poiché anche la scelta di esempi e citazioni non andrebbe fatta a cuor leggero. Ma poiché nell’omelia domenicale il Pontefice ha chiarito che la citazione e l’esempio non impegnano il suo pensiero, consideriamo la prima cosa depurata dall’offesa all’Islam (benché certi musulmani non concedano analoga considerazione e facciano di tutto per dimostrare che Ratzinger non ha tutti i torti) e guardiamo più a fondo la seconda cosa detta dal Papa, che chiama in causa ancora una volta l’identità dell’Occidente.
Il Papa dice: il Dio dei cristiani è il Dio Logos, il Verbo eterno, il Dio che è Ragione e Parola. Non solo nei discorsi tedeschi, ma in tutto il pontificato (e prima ancora) la maggiore preoccupazione di Ratzinger è stata ed è quella di contrastare la deriva relativistica dell’Occidente, recuperando alla ragione quel bagaglio metafisico-teologico da cui essa ha preteso invece di affrancarsi, in un processo di progressiva secolarizzazione e laicizzazione. A Regensburg, Ratzinger ha perciò detto: la scienza – che è come dire la razionalità moderna, tecnica ed economica, formale e strumentale – crede di poter rendere superfluo Dio nella spiegazione del mondo, “ma ogniqualvolta poteva sembrare che ci si fosse quasi riusciti – sempre di nuovo appariva evidente: i conti non tornano!”. Se reintroduciamo Dio, pare dunque pensare il Papa, i conti tornano fino all’ultima cifra decimale. Il fatto è che non solo i conti non tornano affatto, e che non basta volere che tornino perché tornino effettivamente, ma la filosofia ha da tempo gettato il sospetto sulla stessa volontà di farli tornare. E non solo la filosofia lo ha fatto, ma anche la letteratura, e la stessa teologia (come si dice: dopo Auschwitz – ma anche prima). Un Dio che faccia tornare i conti, una ragione in cui si compongano senza dissidi tutte le dimensioni dell’umano, una storia i cui slogati frammenti si accordino in un senso complessivo: queste ed altre cose la cultura filosofica e teologica se l’è lasciate alle spalle. Può spiacere, ma è così. E non è riproponendole con maggiore forza che si procura loro maggior fondamento. L’inculturazione greca della fede cristiana, il tomismo e l’ analogia entis, la ragionevolezza della religione e l’autorevolezza della tradizione: lungi da me l’idea che sia tutto da buttare. Ma finché il Papa avrà occhi solo per il modo in cui il cristianesimo può difendere il suo passato, e non invece per il modo in cui già in passato ha saputo pensare al futuro, difenderà appunto un’identità passata e non metterà una pietra per costruire quella futura. E invece di trovare un punto di mediazione, si troverà (giustamente) preso tra due fuochi: dalla cultura laica per il segno restauratore delle sue battaglie; da quella religiosa, cristiana e non, per l’apologetica affidata ad una ragione che non c’è più.
Facciamo allora anche noi un esempio. 1453. L’Impero bizantino (quello che era stato anche di Manuele Paleologo) cade per mano dei turchi. Cade Costantinopoli, cade la seconda Roma. Maometto II entra in città, e la città viene messa a ferro e fuoco. È una strage di cristiani. Muoiono decine di migliaia di persone, le chiese vengono saccheggiate, le donne violate. E mentre in Occidente c’è chi vorrebbe allestire una nuova crociata, in mancanza del Palazzo di Vetro si riuniscono in cielo, per tentare una mediazione, i rappresentanti di tute le religioni. C’è anche san Paolo, che accompagna Gesù. Il quale san Paolo, che a giudicare dalle lettere non doveva avere il più mansueto dei caratteri ma che per l’occasione sfoggia un confacente spirito ecumenico (si capisce: è giudeo, di abiti romani e di fede cristiana), a un certo punto dice: “La salvezza dell’anima avviene per fede […]. Una volta riconosciuto ciò, la varietà dei riti non turberà più nessuno. I riti possono cambiare, la verità resta immutabile”.
Un’utopia, il De pace fidei di Niccolò da Cusa, ma un’utopia cristiana, concepita da un cardinale profondo e visionario, mentre il vecchio mondo andava in frantumi e nuovi mondi cominciavano a disegnarsi: c’erano i Turchi alle porte, ma di lì a poco anche Colombo oltre le colonne d’Ercole, Lutero dinanzi al portale della chiesa di Wittenberg e Copernico lungo nuove rotte planetarie. Considerando i dogmi della fede congetture, approssimazioni alla realtà infinita di Dio, Cusano non abdicava semplicemente alla verità, non si rassegnava al relativismo, ma lo sfidava: non abbassando la verità a misura dell’uomo, ma ponendo più in alto di essa il mistero, e riconoscendo al cristiano (e solo a lui!) la capacità di essere nella verità a distanza dalla verità piuttosto che nel trionfante possesso di essa.
Purtroppo Ratzinger ha scelto un’altra via. E invece di pensare l’incontro tra le fedi e le religioni nella forma aperta che Cusano inventò mentre il mondo medievale cedeva, preferisce rinchiudersi nella critica della forma filosofica del nostro tempo, cercando così non di conciliarsi con lo spirito critico della modernità, ma di incontrarsi con l’Islam nella critica alla modernità. Figuriamoci.