Dopo cinquanta giorni di tentativi andati a vuoto, e di evidenti fallimenti registrati sull’asse Di Maio-Salvini, si pone prepotentemente il tema di un possibile governo M5S-Pd. Un governo che fuori da questo quadro sarebbe stato del tutto impensabile. Alla base del dibattito di queste ore, da parte di molti, vi è il richiamo al senso di responsabilità verso il Paese. Personalmente credo che sia proprio il senso di responsabilità oggi a imporre al Pd di evitare in ogni modo e in qualsiasi forma questo accordo.
Pur volendo superare le distanze registrate in campagna elettorale, e le asprezze e le offese ricevute in questi ultimi anni, troverei un gravissimo errore ogni tipo di accordo. Un errore che pagherebbe il Paese, in particolare il Sud, prima ancora che il Pd. Oltre che per le differenze programmatiche, Pd e cinquestelle infatti sono incompatibili in un’esperienza di governo, per la distanza incolmabile che li separa sul piano ideale e culturale.
L’idea di democrazia che persegue il M5S è tendenzialmente organicista; considera il pluralismo e i corpi intermedi, architrave del liberalismo democratico, degli ostacoli al dispiegamento della “dittatura della maggioranza”: cos’altro rappresenterebbe altrimenti l’ossessione, ad esempio, per il vincolo di mandato? La stessa ostentata preferenza per la democrazia diretta, rispetto alle forme della rappresentanza, non costituisce altro che il pietoso velo che copre un’idea plebiscitaria e autocratica dei processi decisionali della politica, laddove nella pratica tutte le scelte di rilievo vengono demandate a organismi ristretti (il “direttorio”) o monocratici (il “capo politico”) o addirittura informali come nel caso dell’Associazione Rousseau.
Chi come me a Napoli ha conosciuto da vicino il funzionamento dei meccanismi di disintermediazione politica messi in atto da Luigi de Magistris e dal suo partito a gestione personale, Dema, può testimoniare che i contenuti del populismo grillino sono stati perfettamente riprodotti su scala locale. Esattamente come de Magistris fu rieletto sindaco nel 2016 sull’onda di un sentimento di disaffezione al nostro partito, con slogan di rottura e promesse di un “reddito minimo cittadino”, 600 euro che il Comune avrebbe assicurato ai disoccupati napoletani, il Movimento 5 Stelle il 4 marzo si è presentato nei quartieri popolari di Napoli e delle maggiori città del Mezzogiorno ponendosi come forza antagonista e demagogica e promettendo il famoso “reddito di cittadinanza” di 780 euro. Il fatto che la delibera con la quale la giunta napoletana istituiva il reddito minimo fosse senza copertura finanziaria fa il paio con i se e i forse che i cinquestelle hanno opposto all’attuabilità del loro progetto fin dal giorno successivo alle elezioni.
Il parallelismo ritorna se pensiamo alla vicenda dei rifiuti. Napoli vive in questi giorni una mini-emergenza che ha fatto ritornare i napoletani col pensiero a quella del 2008-2010. Ed è un pensiero giusto: la città oggi scopre che tutte le cause strutturali che avevano determinato la drammatica crisi dei rifiuti non sono state mai rimosse. Nel 2011 si riuscì a superare l’emergenza grazie all’entrata in funzione del termovalorizzatore di Acerra, osteggiato proprio dai soggetti che sostengono l’attuale amministrazione partenopea, e al trasporto fuori regione dell’immondizia; oggi non si riesce a garantire la rimozione dei rifiuti in città proprio perché l’impianto non sta funzionando a pieno regime. E paradossalmente, oggi Napoli invece trova difficoltà a far ripartire la giostra dell’esportazione dei rifiuti perché la Roma della sindaca Raggi le fa concorrenza facendo lievitare i prezzi e saturando la domanda sul mercato. Abbiamo dunque due sindaci che governano la prima e la terza città italiana virtualmente uniti nei proclami demagogici (no al ciclo industriale dei rifiuti) e nell’inconcludenza amministrativa e gestionale che garantisce simultaneamente un pessimo servizio e tasse alte per i cittadini.
In definitiva, il populismo sudista è meno rancoroso del populismo leghista, ma produce danni più profondi perché fiacca le forze vitali della società. Al nord si soffia sulle paure di una comunità che si ritrova più esposta agli effetti della globalizzazione, ma sapendo che sono ancora ben salde le reti sia sul versante delle forze produttive che su quello della solidarietà sociale. Al sud i populisti inoculano nel corpo già debole della società il veleno del vittimismo, individuando sempre negli “altri” gli artefici del proprio destino, e dell’identitarismo, vagheggiando un’età dell’oro trascorsa, una sorta di Arcadia, senza industria, né gasdotti, né termovalorizzatori.
ll Mezzogiorno è stato in non poche fasi della storia repubblicana terra di conquista di suggestioni e umori populistici e anti-moderni. Non dimentichiamo che, negli anni immediatamente successivi alla Liberazione, a Napoli inizia la non breve egemonia politica di una figura come quella di Achille Lauro; mentre sono Palermo e Messina le uniche due città capoluogo che eleggono sindaci dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Si tratta di autentiche cesure storiche che di fatto isolano interi pezzi del territorio nazionale dalle dinamiche sociali, economiche, istituzionali del resto del Paese. Sono momenti culminanti di un fenomeno che in realtà percorre per intero la storia politica del Mezzogiorno e che non dev’essere assolutamente sottovalutato. Cosa ha rappresentato, in estrema sintesi, il “settennato di potere” (perché non si è trattato di una reale esperienza amministrativa) di de Magistris a Napoli? Esattamente questo: l’isolamento dell’unica grande metropoli del Sud Italia dal contesto nazionale.
È stato questo il prezzo che l’ex magistrato ha fatto pagare alla città nel proporre ai napoletani il suo modello di governo autocratico insieme al suo racconto identitario; un racconto che non a caso si è andato sempre più spregiudicatamente sviluppando sul pericoloso crinale antiunitario e neo-borbonico. Ritorna la sintonia con il grillismo che a un Sud alle prese ancora con enormi problemi infrastrutturali e di modernizzazione produttiva, che ancora arranca nella sfida per l’innovazione, non ha saputo proporre di meglio nei consigli regionali dove ormai è ben presente che una mozione per l’istituzione di una fantomatica giornata alla memoria delle “vittime dell’unità d’Italia”, inseguendo un sentimento revanscista che anziché rilanciare la sfida per lo sviluppo e guardare al futuro, approfondisce il solco del localismo con il Centro-Nord, offrendo praterie alla propaganda uguale e contraria dei leghisti, con la testa rivolta al passato.
Ecco, l’esperienza di Napoli, dove il Pd a partire dal 2010 ha pagato scelte amministrative sbagliate e l’ossificazione di una struttura di potere, ci dice che laddove il Pd non ha mantenuto ben saldo il metodo e la pratica del riformismo, cedendo in più punti alla tentazione della rincorsa ai populismi, si è ridotto a una forza politica marginale ben prima della sconfitta del 4 marzo. Il pericolo da scongiurare è replicare questa dinamica nell’intero Paese: in gioco c’è non la sopravvivenza del Partito democratico, che resta uno strumento, non certo un fine; in gioco c’è la permanenza in Italia di una grande forza di sinistra con i piedi ben saldi nella cultura liberale e democratica. Privare l’Italia di una simile forza, l’unica rimasta a rappresentare una speranza vera e concreta, sarebbe, questa sì di sicuro, una scelta irresponsabile verso il Paese.