A leggere i giornali pare proprio che il problema del Pd – anzi, il problema per cui il Pd rischia addirittura l’estinzione – sia tutto qui: nel fatto che Matteo Renzi abbia detto in tv di non ritenere possibile un accordo di governo con i cinquestelle, come già stabilito dall’ultima direzione del Pd, all’unanimità, con l’astensione della sola componente esplicitamente favorevole all’intesa (quella di Michele Emiliano). E come ripetuto in questi giorni da tutti i membri di quell’augusto consesso (con la sola eccezione di cui sopra), i quali, nel momento stesso in cui rilasciavano interviste e dichiarazioni per dire che comunque al tavolo bisognava sedersi, respingevano con sdegno l’insinuazione secondo cui il loro obiettivo fosse in realtà accordarsi con i cinquestelle: insinuazione volgare, sospetto inaccettabile, velina vile e meschina messa in giro per screditare la limpidezza della loro posizione politica. Che a questo punto, sinceramente, non ho capito quale sia.
Sarebbe bello se una volta, tanto per cambiare, e magari proprio alla prossima direzione, renziani e antirenziani provassero a buttarla in politica. Terreno su cui ci sarebbero tante ragionevoli obiezioni da muovere a Renzi, e di cui potrebbe essere persino interessante discutere, una volta abbandonata l’irragionevole pretesa che la discussione sia una sorta di caccia alla volpe in cui tutti possono dire perché Renzi ha torto, ma lui può aprire bocca solo per chiedere pietà. Un atteggiamento che finisce per spingere in secondo piano qualunque dissenso di merito, sulla politica, riducendo tutto alla sterile contesa pro o contro Renzi. Che non è male come risultato, se ci pensate, per chi dice di voler combattere la personalizzazione della politica. Eppure nella stessa intervista incriminata, quella di domenica a Che tempo che fa, Renzi di politica ha parlato, prendendo una posizione non scontata su quello che a suo giudizio dovrebbero fare ora il parlamento e il prossimo governo. Perché non discutere di questo?
A me ad esempio non convince affatto l’idea che adesso si possa ricominciare come se niente fosse dalle riforme istituzionali e dal «modello francese», o comunque dal principio secondo cui alle elezioni chi arriva primo – quale che sia la sua percentuale – deve vincere governo e maggioranza in un unico pacchetto, chiavi in mano, la sera stessa del voto. Non mi convinceva prima, questa concezione del voto come Lascia o raddoppia, in cui chi vince si prende tutto il cucuzzaro, e mi spaventa adesso, in una stagione in cui in Italia e nel mondo riemergono pulsioni che credevamo sepolte nelle pagine più nere dei libri di storia. Se proprio si dovesse rimettere mano ancora una volta alla legge elettorale, fosse per me, toglierei le coalizioni e lascerei un proporzionale puro, così da levare di mezzo anche questo pericoloso equivoco per cui non si capisce nemmeno chi sia arrivato primo, se il partito o la coalizione (e infatti l’aspetto che mi convinceva di più dell’Italicum era proprio questo: che dava il premio alla lista e non più alla coalizione).
Quanto al resto, mi sembra che il lungo stallo, nonostante tutto, dimostri l’esatto contrario di quello che dice Renzi, quando fa il broncio agli elettori e ripete che lui l’aveva detto che dopo il no al referendum saremmo finiti male. Intendiamoci, ho votato sì e non me ne pento, e certo l’esito del voto del 4 marzo non mi ha entusiasmato. Tuttavia non mi pare che la situazione attuale sia così tragica. Tanto per cominciare, stiamo finalmente uscendo dalla logica populista del para-presidenzialismo maggioritario di questi anni: tutti sono costretti a misurarsi con le regole della democrazia parlamentare, a riconoscere il ruolo dei propri avversari e la legittimità delle loro posizioni, a gettare la maschera del manicheismo intransigente e intollerante. Da questo punto di vista, ad esempio, ricordo che Luigi Di Maio non è certo il primo a sostenere di essere stato eletto direttamente dai cittadini come candidato premier: sono decenni che abbiamo introdotto e alimentato questo equivoco, piazzando surrettiziamente il nome del leader nei simboli di partito o di coalizione, e sostenendo che ogni loro avvicendamento a Palazzo Chigi era un complotto o un golpe (a destra e a sinistra).
È bene che questo insieme di equivoci e forzature crolli subito, e il più fragorosamente possibile. È una cura salutare di cui tutti i partiti hanno un gran bisogno, e sarebbe un delitto interromperla proprio adesso, quando ha appena cominciato a dare i primi frutti. Nel frattempo, ciascuno farà le sue proposte, prendendosi la responsabilità di accettare o rifiutare un accordo, e se un’intesa non si dovesse trovare vorrà dire che si tornerà al voto e gli italiani giudicheranno. Si parla tanto di responsabilità, ma l’unico modo che conosco di responsabilizzare le forze politiche è proprio questo: metterle di fronte agli elettori, che sono gli unici titolati a giudicare, con l’esito delle loro scelte sotto braccio. È invece davvero intollerabile il coro di tutti i più antichi e ferventi sostenitori del maggioritario che adesso ci spiegano come con il proporzionale, in pratica, il Pd sarebbe obbligato a mettersi d’accordo con chiunque glielo proponga, a prescindere. Ma questa è solo l’altra faccia della logica dei sistemi elettorali degli ultimi venticinque anni – un’ideologia abbracciata entusiasticamente da Renzi – che si tratti di Mattarellum, Porcellum o Italicum, e che per brevità preferisco definire Cucuzzarum.
Non contento di averci rimesso governo e maggioranza (perché è su questo e solo questo che si è giocato e ha perso tutto), Matteo Renzi, nella sua intervista a Che tempo che fa, ha rilanciato la parola d’ordine delle riforme istituzionali su un modello francese che peraltro, diversamente da come la mette lui, non ha niente a che fare con il referendum (dove non si prevedeva alcuna forma di presidenzialismo) e nemmeno con la suddetta logica del Cucuzzarum (in Francia c’è il doppio turno di collegio). Avrei quindi trovato meraviglioso – che dico meraviglioso: sublime! – che a sinistra si aprisse una dura, aspra e finalmente interessante polemica contro questa forma di incomprensibile e masochistica coazione a ripetere. Ma sarà per un’altra volta.