Qualcuno sostiene che costruire una strategia per vincere un campionato del mondo di ciclismo su strada sia facile.
Qualcuno sostiene che costruire una strategia per vincere un campionato del mondo di ciclismo su strada sia difficile.
Qualcuno sostiene che l’elemento fondamentale della strategia per vincere un campionato del mondo di ciclismo su strada sia l’analisi accurata del percorso. Se così fosse, la nazionale italiana non avrebbe vinto il campionato del mondo di ciclismo che si è corso ieri a Salisburgo, in Austria. Come è già accaduto più volte negli ultimi anni, infatti, le numerose ricognizioni svolte sul percorso dal commissario e selezionatore Franco Ballerini hanno portato il nostro staff tecnico a sopravvalutarne la difficoltà. Da mesi si parlava di un percorso duro, anzi durissimo, con due strappi significativi lungo lo svolgimento di poco più di 22 chilometri da ripetere 12 volte. In realtà, come poi si è visto in corsa, i nove chilometri che separavano la sommità della seconda salita dal traguardo hanno consentito ai velocisti, staccati sulle pendenze del 15%, di riportarsi sotto tutte le volte, supportati dalle loro squadre. Risultato: eravamo l’unica nazionale di rilievo a non avere tra le proprie fila un velocista vero e proprio, come già nelle scorse edizioni di Hamilton, Lisbona, Verona e Madrid, tutte infauste per i nostri. A tre chilometri dall’arrivo, il gruppo compatto poteva contare ancora una cinquantina di elementi, tra i quali tutti i signori delle volate di massa, nessuno dei quali in maglia azzurra.
Qualcuno, tuttavia, sostiene che l’elemento fondamentale della strategia per vincere un campionato del mondo di ciclismo su strada sia la capacità di una squadra di “fare la corsa”, e cioè adattare le proprie tattiche al percorso, chilometro dopo chilometro. Da questo punto di vista alla nazionale italiana non si sarebbe potuto rimproverare nulla. Corsa perfetta. Una perfezione inutile, visto l’errore di valutazione a priori, ma pur sempre perfezione. Si diceva che sarebbe stato necessario rendere dura la corsa. Si diceva che sarebbe stato necessario far entrare almeno due nostri uomini in ogni fuga per costringere le nazionali avversarie a lavorare e a sfiancarsi per inseguire. Si diceva che i nostri capitani sarebbero dovuti rimanere coperti fino agli ultimi due giri. Così è stato. Giro dopo giro. I nostri in fuga erano sempre in superiorità numerica e tra i vari gruppetti di fuggitivi che si sono alternati al comando della corsa per gli oltre 250 chilometri del Mondiale gli atleti azzurri erano sempre i più temibili del lotto: il giovane Nocentini e l’esperto Tosatto nella fuga “bidone” della prima metà della gara; il killer Di Luca e il fenomeno Pozzato (entrambi tra i più forti interpreti a livello mondiale delle corse di un giorno) nell’interessante tentativo al terz’ultimo passaggio; i capitani Bettini e Rebellin negli ultimi due giri, in compagnia degli altri favoriti. Tutto giusto, tutto perfetto. Però, a tre chilometri dall’arrivo, gruppo compatto. E i nostri lì senza velocista. Dopo aver lavorato tutto il giorno, eccoli pronti ad essere infilzati sul più bello da un belga, un australiano, un norvegese, uno spagnolo, un tedesco.
Qualcuno, infine, sostiene che l’elemento fondamentale della strategia per vincere un campionato del mondo di ciclismo su strada sia poter contare sullo stato di grazia di un fuoriclasse assoluto. Insomma, come diceva il vecchio Binda: “Ghe voeuren i garün”. Ci vogliono le gambe. Ci vuole il cuore. Ci vuole uno con il fisico. 169 centimetri per 58 chilogrammi, 32 battiti cardiaci al minuto a riposo, 375 watt di potenza sprigionata sui pedali. Uno che ha vinto la Sanremo, la Liegi, le Olimpiadi, tappe al Giro e al Tour, per tacere di tutto il resto. Uno che a due giri dalla fine prova lo scatto sulla rampa più dura per saggiare le condizioni degli avversari. Uno che, al giro successivo, sulla stessa rampa attacca a fondo, stacca tutti, resta solo in testa a un amen dall’arrivo, ma capisce che quei nove chilometri di discesa e pianura che mancano ancora sono troppi per conservare, da solo, i pochi secondi di vantaggio che ha e quindi ha il sangue freddo di rialzarsi. Uno che sa che per vincere un Mondiale, questo Mondiale, bisogna rischiare di perderlo. Uno che ha il fegato di dire a tutti i suoi compagni e al commissario tecnico che, nonostante le gambe avvelenate dai due scatti in salita, si prenderà la responsabilità di fare la ormai inevitabile volata, pur non essendo uno specialista puro e pur sapendo che nel gruppo che gli è tornato sotto sono ancora presenti i fenomeni degli sprint, portati fin lì in carrozza dalle rispettive squadre. Uno che a un chilometro dall’arrivo è esattamente dove dovrebbe essere. Uno che a seicento metri dall’arrivo si accorge che, a causa di una curva secca e dell’esitazione di un altro corridore, s’è creato un impercettibile buco tra i primi tre del gruppo e il resto del plotone. Uno che nonostante i 250 chilometri già percorsi e la frenesia dei sessanta all’ora ha la lucidità di capire che il campionato del mondo si sta decidendo lì, in quel momento esatto. Uno che ha ancora, nonostante tutto, le gambe, l’agilità e il coraggio per gettarsi, con la bicicletta piegata a quarantacinque gradi, in quel buco fatto di aria, per prendere la ruota del tedesco Zabel e dello spagnolo Valverde, per avvantaggiarsi con loro di pochi metri sul resto del gruppo lanciato e per bruciarli allo sprint negli ultimi cinquanta metri di corsa.
Insomma, un genio del ciclismo. Paolo Bettini, il nuovo campione del mondo di ciclismo su strada.