Ufficialmente è cominciata soltanto domenica la visita diplomatica del presidente Bush in quella che i giornali americani, con crudele e forse persino involontaria ironia, chiamano la capitale dell’Unione europea. Ma l’avvicinamento a Bruxelles era stato percepito nettamente già all’indomani della trionfale rielezione del presidente e ampiamente confermato dai toni concilianti del segretario di stato Condoleezza Rice nella sua recente tournée diplomatica. Certo è che nella capitale dell’Unione europea il presidente degli Stati Uniti non sarà ricevuto né dal re, né dal presidente eletto, né da alcuna figura istituzionale comparabile, per la semplice ragione che tale figura non esiste, come non esiste la capitale d’Europa. Undici capi di stato e di governo si alzeranno a turno, al cospetto del presidente americano, per pronunciare undici diversi discorsi su undici diversi argomenti, opportunamente e preventivamente ripartiti tra loro, stando bene attenti a evitare sgradevoli sovrapposizioni. Sui diversi temi in agenda, dall’impegno in Iraq al braccio di ferro sul nucleare in Iran, dall’embargo sulla vendita di armi alla Cina al protocollo di Kyoto, dalla nuova crisi libanese al tribunale penale internazionale, difficilmente il vertice potrà registrare al termine posizioni radicalmente diverse da quelle già note al momento della sua apertura. In Iraq è probabile che i paesi europei accettino qualche forma di coinvolgimento nella ricostruzione mantenendo l’antica contrarietà all’invio di soldati; sull’Iran e la crisi libanese è quasi certo che rimarranno le consuete differenze di approccio, tra un’Europa più diplomatica e un’America più impaziente. Se ne potrebbe concludere che nei rapporti transatlantici non sia cambiato nulla e probabilmente è proprio così. Salvo un paio di dettagli piuttosto significativi.
Il primo dettaglio è che in Iraq, bene o male, si è avviata una forma di transizione democratica che sarebbe pura follia negare. Nonostante tutto, al momento non si è scatenata l’apocalisse prevista da molti e adesso occorre pensare a darsi da fare perché quelle funeste previsioni non si avverino mai. Il secondo dettaglio è che però, nonostante questo e nonostante l’incoraggiante evoluzione della crisi israelo-palestinese, al momento non si è visto nessun effetto domino in Medio Oriente. Non si è scatenato l’inferno, ma l’attuale situazione in Iraq ne è una ragionevole approssimazione e in tutta la regione siamo ancora ben lontani dal paradiso promesso. Ragion per cui alla fine dei conti lo stallo diplomatico e le divisioni scavate dalla guerra sono rimaste tale e quali. L’unilateralismo americano non ha prodotto quel riassestamento degli equilibri mondiali che era nei piani dei suoi più fanatici promotori e George W. Bush è ancora costretto a confrontarsi con la vecchia Europa. In un certo senso, anche qui si potrebbe concludere che non è cambiato nulla. Aggiungeremmo soltanto: per fortuna.