Se tutti ti ricordano, ogni giorno, che appartieni alla prima generazione che sa già che starà peggio dei propri genitori; se alla fine del tuo percorso di studio, in qualunque colloquio di lavoro, ti chiedono «esperienza» e poi, nella migliore delle ipotesi, ti propongono uno stage non retribuito; se hai partecipato a tutti i concorsi (per quanto pochi) nella pubblica amministrazione e sei rimasto per anni in graduatorie di idonei; se hai provato ad avviare un’attività in proprio e il tuo primo rapporto con lo Stato di fatto sono state le tasse che dovevi pagare per cominciare a lavorare; se per uno o per tanti di questi motivi ti sei ormai convinto che non valga più nemmeno la pena di combattere, perché «tanto non cambierà mai nulla», è probabile che i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti nei confronti della politica, e in particolare nei confronti della sinistra, che di questi problemi dovrebbe occuparsi per prima, non siano dei più affettuosi, grati e fiduciosi. Parliamone.
Entrati nel 2013 nel parlamento più giovane della storia repubblicana, provenendo noi stessi da tante di quelle «esperienze», non potevamo non sentire il dovere di cambiare le cose. O almeno di provarci. Lo abbiamo fatto portando avanti battaglie per allargare i diritti, rifiutando la regressiva contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali: dal riconoscimento delle unioni civili al blocco e riduzione delle aliquote contributive per le partite iva. Abbiamo approvato norme contro il femminicidio e abbiamo definito misure di supporto e sostegno alla genitorialità, cancellando la vergogna delle dimissioni in bianco e introducendo i congedi di paternità e i bonus per i nuovi nati. Abbiamo cercato, soprattutto, di dare una scossa all’Italia, consapevoli che senza una ripartenza della crescita, dell’occupazione, dello sviluppo, in un paese che rischiava di avvitarsi sempre più in una spirale di austerità e deflazione, a farne le spese per prime sarebbero state anzitutto quelle generazioni di giovani e oramai neanche più tanto giovani che per troppi anni abbiamo lasciato prive di ogni garanzia e tutela, ma soprattutto prive di occasioni. E nessuna spirale è peggiore della deflazione delle aspettative, della corsa al ribasso delle proprie ambizioni.
Per questo non ci siamo preoccupati soltanto di far ripartire l’Italia, ma di farla ripartire da lì: con misure di redistribuzione e stimolo alla domanda come gli ottanta euro, con gli incentivi alle assunzioni e le norme sul mercato del lavoro, con la riforma dell’indennità di disoccupazione per i lavoratori dipendenti che hanno carriere discontinue e con il sussidio di disoccupazione per i collaboratori, per i dottorandi e gli assegnisti di ricerca, che non avevano mai avuto un ammortizzatore sociale. È anche grazie a questo sforzo se oggi, sul grafico dell’economia italiana, è risalita la curva dell’occupazione, è risalita la curva del pil, è risalita la curva della produzione industriale. E nella società italiana, dopo decenni di immobilismo e discussioni grottesche su Pacs, Dico e non Dico, è risalita anche la curva dei diritti civili.
Ma la curva del futuro, per buona parte della nostra generazione, continua a scendere, nonostante tutto. È anche per questo, certamente, che tante di queste riforme non sono bastate a trasmettere alla maggioranza degli italiani, e prima ancora dei giovani, il sentimento di uno sforzo comune, al quale dovrebbero unirsi tutti coloro che in questi anni sono stati esclusi da un’Italia in cui il futuro dipende troppo da dove sei nato e troppo poco da quello che hai fatto per conquistartelo. E invece, su molte di queste battaglie, abbiamo dovuto scontrarci non solo con le resistenze dei tanti interessati a mantenere lo status quo, ma anche con l’indifferenza o l’aperta ostilità dei tantissimi che pure avrebbero avuto interesse a spingere con noi in direzione del cambiamento.
Perché? Diffidenza, disillusione, disperazione? Forse tutte e tre le cose insieme. Forse il carico degli errori del passato, delle tante distrazioni e assenze, degli equivoci e delle scelte sbagliate, si è fatto troppo pesante per essere superato solo con un richiamo alla buona volontà di tutti e alle nostre buone intenzioni. Parliamone.
Parliamo dei nostri errori e dei nostri buoni risultati, delle vittorie e delle sconfitte, ma soprattutto di cosa serve, per l’oggi e per il domani, ad almeno due generazioni di italiani che dalla politica di questi ultimi venticinque anni sono state letteralmente tagliate fuori. E non solo dalla politica, perché la loro esclusione dal circuito della comunicazione e dell’informazione è forse perfino più drastica. Per far ripartire la curva del futuro, ne siamo consapevoli, non basta continuare ad aggiustare quello che non funziona. C’è bisogno di fare qualcosa di più e di nuovo, e di farlo insieme.
Incontriamoci (a Tarquinia, il 16-17 settembre) per riflettere e per discutere. Per spingere più in là il nostro sguardo e le nostre ambizioni, oltre le secche di un dibattito politico chiuso e autoreferenziale, oltre i mille ostacoli di una società sempre più castale e sclerotizzata. Insieme spingeremo più forte.
Magda Culotta
Chiara Gribaudo
Tonino Moscatt
Valentina Paris
Giuditta Pini
Fausto Raciti
Alcune delle risposte al nostro appello:
Cristiana Capotondi
Sarah Maestri
Flavio Soriga
Ronny Mazzocchi
Andrea Dili
Giuseppe
Andrea
Maria Cristina Zoppa
Enrico Pazzi
Luana Evangelista
Pietro Mariani
Andrea Egidi
Giampaolo Mangone
Toni Ricciardi
Daniela Forlani
Marco Giraudo
Anthea Sanna
Francesco Pocchi
Fabrizio Procopio
Eleonora Pierro
Carlo Pedata
Jacopo Arpetti
Ilja
Simone Roselli
Antonella Muto
Stefano Spinetti
Isabella Orazi
Natalia Guidi