Come il ricorrente dibattito sulla necessità di cambiare inno nazionale, e come quasi tutti i dibattiti di questo genere, una discussione sull’opportunità di cambiare il simbolo del Partito democratico si rivelerebbe più specchio che soluzione del problema. Sarebbe la dimostrazione – o se si preferisce il simbolo – di una drammatica incomprensione di sé e del proprio posto nel mondo, ma soprattutto di cosa siano, e a cosa servano, i simboli. Sarebbe come pretendere di cambiare il carattere nazionale attraverso un’illuminata riforma della lingua italiana e del suo alfabeto, per decidere ad esempio che con qualche vocale in più e qualche consonante in meno, dando magari alla lettera S una forma più regolare e più sobria, chissà, forse gli italiani diventerebbero finalmente un po’ più tedeschi, o inglesi, o americani.
Bene ha fatto dunque Pier Luigi Bersani a liquidare come una sciocchezza il tentativo di riaprire questa insulsa discussione, partito dal Corriere della sera con un articolo corredato di un significativo specchietto: i simboli di Pci, Pds, Ds e infine del Pd. Nessuna traccia della Margherita e tantomeno della Dc. A confermare la tesi secondo cui il Partito democratico non sarebbe altro che l’ennesima operazione di mimetismo messa in atto dai soliti comunisti, come direbbe Silvio Berlusconi. E in attesa che qualcuno nel Pd torni ad alimentare la polemica sulla loro egemonia.
A forza di insistere, però, l’operazione potrebbe anche riuscire. Il primo tentativo, un articolo di qualche tempo fa, era partito dalle parole di Debora Serracchiani, eurodeputata emergente molto vicina a Walter Veltroni. Ma l’idea di cambiare simbolo era stata subito approvata da Ugo Sposetti. Una sintonia senza dubbio inusuale, che magari non meritava il rilievo che le fu dato, ma che restava indubbiamente una notizia. Forse, allora, è meglio affrontare subito la discussione, senza aspettare le prossime puntate. E provare ad allargare un po’ il discorso.
Quando si stenta a riconoscere il proprio volto nello specchio, non è con lo specchio che bisogna prendersela. Se ci si sente a disagio dinanzi alla propria fotografia, non è con i fotomontaggi che si risolve il problema. Bene che vada, ed è non per caso il triste risultato di tante riforme e di tante presunte rivoluzioni di questi quindici anni, si ottiene l’“effetto Oscar Pettinari”, dal nome dell’irresistibile protagonista di Troppo forte: l’immagine di un improbabile Rambo, con il mitragliatore spianato e il volto indomito di Carlo Verdone.
La carica drammatica e la forza che ancora oggi ci paiono sprigionare gli antichi simboli di un tempo che non è più, come la falce e martello o lo scudo crociato, non dipendono da loro. In sé e per sé, non sono migliori né peggiori di altri: incroci di linee, punti e spazi vuoti come tanti. La forza con cui ancora oggi ci paiono capaci di trasmettere il loro messaggio, proprio come per le parole e per le lettere che le compongono, non è questione di forme. E’ questione di storia.
Potrebbe sembrare strano che l’idea di cambiare il simbolo del Pd sia venuta da Debora Serracchiani. E invece dovrebbe stupire, semmai, che a condividerla sia proprio un dirigente della storia di Ugo Sposetti, che la linea del “partito completamente nuovo” non ha mai condiviso, e che alla conservazione e tutela del patrimonio storico, simbolico e culturale del Pci si dedica da anni con intelligenza, capacità e passione. E stupirebbe se proprio coloro che all’impostazione data da Veltroni alla prima fase del Pd si sono opposti, e su questo hanno vinto l’ultimo congresso, si lasciassero ora sedurre dalla tentazione di rimuovere, con il simbolo del Pd, l’ultima statua del primo segretario, come si fa ancora oggi in alcuni paesi dell’Est, o nella Spagna di Zapatero con i simboli del passato franchista. In questo caso, infatti, l’equivoco sarebbe duplice, perché è proprio nella tragica confusione tra realtà storica (e politica) da un lato, e universo simbolico dall’altro, che stava l’essenza dell’impostazione veltroniana. Nel momento stesso in cui ci si illudesse di rimuoverla cambiando simbolo, al primo (vero) cambio di segretario e a nemmeno tre anni dalla nascita del partito, la si impianterebbe nella cultura del Pd con ben più solide radici.
Quello del Partito democratico non è un problema di significante, ma di significato. Checché ne dicano i grandi giornali, infatti, il Partito democratico non è affatto un partito (e di conseguenza, necessariamente, neanche un simbolo) insignificante. Semmai, in-significato. Se appare vuoto, o pieno solo di un’insopportabile e vacua retorica, che fa lo stesso, non è per un difetto di forma, ma per mancanza di contenuto: perché quel contenitore formale – partito e simbolo – non è stato ancora riempito di senso, dai suoi dirigenti, dai suoi militanti e più in generale dal popolo italiano, cioè dalla storia. Ma costringerlo a rinascere continuamente a nuova vita, nell’ansia di ridotarlo costantemente di quel carattere di assoluta novità che altrimenti, per definizione, non potrebbe conservare, significa condannarlo a non avercela mai, una storia. Dunque neanche una tradizione, e cioè un deposito simbolico e morale nella memoria collettiva, da cui attingere e in cui riconoscersi, per non restare per sempre la copia di mille riassunti, estranei al prossimo non meno che a se stessi. E di conseguenza, per forza di cose, sempre stranieri in patria.